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Il Ṛgveda non necessita di interpretazioni


Riproduciamo qui di seguito la risposta che il traduttore e curatore della nostra edizione del Ṛgveda offrì a una persona che, poco dopo l'uscita del volume, gli espresse alcune difficoltà «nell'interpretare il testo in senso esoterico».

*

Gentile X,

la ringrazio per le parole gentili che rivolge alla mia persona e al mio operato.

Entro subito nel merito delle sue considerazioni sul Ṛgveda, in quanto credo di comprendere le sue perplessità e offro qui le mie più schiette riflessioni.

Condivido con Lei che "interpretare" un qualunque testo è un'operazione oltremodo aleatoria (per quanto sia talvolta necessario correre qualche rischio e assumersene le responsabilità), dato che non si è mai sicuri, in definitiva, della bontà delle proprie personali conclusioni, inevitabilmente soggettive. Infatti, se si è sufficientemente onesti, persiste il dubbio e resta pressoché irrisolta la seguente domanda: "era davvero questo ciò che lo scrittore intendeva esprimere?".

Il Ṛgveda si è prestato, nel corso dei millennî, alle più disparate interpretazioni. Yāska (uno dei primi grammatici della lingua sanscrita) accenna a un triplice significato degli inni vedici attribuito dalla più vetusta tradizione: un significato ritualistico (adhiyajñika), un valore legato alla rivelazione delle divinità invocate (adhidaivika) e, infine, una conoscenza spirituale (adhiyātmika). Non c'è da stupirsi che le interpretazioni maggiormente accreditate, nella presente epoca utilitarista, siano tutte in qualche modo legate alla letteralità — naturalistiche, ritualiste, astronomiche, storiche o altro ancora. Alcuni sono convinti che gli autori rigvedici fossero dei "barbari" adoratori della natura, e che con i loro inni intendessero propiziarsi i fenomeni materiali (soprattutto quelli potenzialmente più pericolosi o più benefici per l'uomo: il fuoco, il fulmine, la pioggia, i fiumi, l'oceano, il sole, i venti...), divinizzandoli e cercando di attenuarne l'aspetto distruttore (o volgendolo in loro favore per combattere tribù nemiche), mediante specifici rituali, oblazioni collettive di cibo e di lodi; altri studiosi, accortisi del linguaggio assai sofisticato degli inni, hanno approcciato i testi rigvedici in modo più serio, nel tentativo di ricostruire l'ambiente di questi insoliti preistorici, cercando anche eventuali notazioni astronomiche che permettessero di assegnare una datazione sia pur solo approssimativa dell'epoca in cui vissero, o di individuare eventuali scontri con etnie avversarie coeve (e, se possibile, identificarle — tentativo mai riuscito, e ciò ritengo non sia per caso); non mancano poi quanti considerano la poesia rigvedica, a dispetto della sua impeccabile cifra stilistica (a partire dalla sbalorditiva perfezione metrica, universalmente riconosciuta), come del tutto sconclusionata, uscita dalle menti primitive di alcuni "selvaggi" che, per quanto ingegnosi e dotati di uno squisito gusto ritmico e melodico e non privi della più vivida fantasia nel foggiare figure poetiche elaborate, metafore suggestive, stilemi di innegabile pregio, si trovavano a uno stadio di sviluppo in cui l'intelletto non aveva raggiunto un livello sufficientemente evoluto, in grado di formulare concetti realmente sensati e opportunamente coerenti.

Kapali Shastry (uno dei maggiori e più autorevoli sanscritisti del XX secolo, distintosi soprattutto in poesia), scrisse un'opera chiarificatrice (in sanscrito!): Siddhāñjana — titolo che, tradotto, corrisponde a "collirio" o, più letteralmente (trattandosi di parola composta, formata dai due termini siddha e añjana), "unguento perfetto". Nella letteratura hindu in cui tale vocabolo compare (per esempio nella Daśakumāra-carita o nel celeberrimo Kathāsaritsāgara), esso tende perlopiù a rivestire il significato di "unguento magico", di natura prevalentemente oftalmica. Ebbene, dopo un'accuratissima e pluridecennale disamina degli studî rigvedici compiuti da Sri Aurobindo, il sanscritista di cui sopra pervenne a una conclusione obbligata, che gli dettò per l'appunto il titolo del saggio citato, teso a dimostrare quel che per lui è un dato di fatto: Sri Aurobindo non ha prodotto alcuna esegesi interpretativa più o meno astrusa, più o meno fumosa, più o meno convincente — si è limitato a fornire, a quanti sono interessati a comprendere il senso vero delle innodie rigvediche, il collirio (o, se si preferisce, il magico balsamo) che permette di pulire i nostri occhi, in modo da togliere la polvere che vela la vista e da permetterci di ammirare il Ṛgveda per quello che è, senza sovrapporre interpretazioni di sorta. Sappiamo pure che uno dei più grandi storici dell'arte, il celeberrimo Ananda Coomaraswamy, si dichiarò sostanzialmente concorde con quanto Kapali Shastry sostenne in quella sua opera e gli accordò il proprio incontrovertibile plauso.

Con ciò non intendo dimostrare nulla, ovviamente — i due esimî studiosi potrebbero essersi sbagliati e, in ogni caso, non è mia abitudine affidarmi ciecamente al parere di chicchessia. Ma non si può certo sottostimare o accantonare il giudizio di due tra i più profondi esperti in assoluto della cultura e della civiltà in cui il Ṛgveda prosperò e si diffuse maggiormente.

Nel mio piccolo, ho avuto modo di verificare pienamente una simile tesi, appurando come essa non sia frutto di un semplice punto di vista più o meno opinabile. Si tratta per me di un fatto inoppugnabile, ma mi rendo bene conto (e tengo a sottolinearlo) che lo è per me e ciò vale solo ed esclusivamente per me. Ciascuno dovrà (qualora volesse formarsi un parere in merito) attrezzarsi per elaborare una propria valutazione. Visto però che Lei mi ha interpellato, non posso esimermi dal fornire la mia personale valutazione — un intero libro non basterebbe a documentarla sufficientemente, sicché mi limiterò a fornire qui qualche stimolo e qualche esempio, traendo spunto dalla sua stessa missiva.

Resto comunque persuaso, a monte, che qualunque vero poeta e, insieme, qualunque lettore di poesia realmente sensibile e dotato del giusto bagaglio esperienziale, non può non cogliere l'essenza più autentica che vibra nei versi sublimi dei poeti-veggenti rigvedici. Le svariate interpretazioni prodottesi dopo lunghi e fecondi approfondimenti non sono necessariamente da considerarsi errate (non tutte, perlomeno, o non del tutto), ma sono certamente riduttive e incapaci di penetrare alla radice del vero senso — e questo proprio perché prodotte da individui che, per quanto dotti e formalmente ben equipaggiati, non erano poeti, bensì grammatici, lessicografi, etimologisti, storici, linguisti, astronomi e studiosi di altre consimili branche del sapere.

Quando ci si accosta a un'opera di poesia, risulta fatalmente ingannevole esaminarla con gli occhiali di un'ermeneutica esegetica iper-razionalista. Il linguaggio della poesia è soprarazionale per definizione: travalica la ragione, scavalca la razionalità analitica per approdare nell'essenza e, quindi, veicola qualcosa che il pensiero analitico non è minimamente in grado di comprendere. Per gustare a fondo una poesia occorre calarvisi dentro, cogliere il soffio che l'ha generata, lasciarsi permeare dal suo vibrato, risalire alle stesse fonti da cui è scaturita — possibilmente, afferrarne le pulsazioni creative originarie e immergersi nella sua visione. Tenendo anzitutto presente che, proprio per sfuggire alle rigide maglie del linguaggio razionale, i poeti fanno abbondantemente ricorso al polisemantismo insito nelle parole, evitando in tal modo di ingabbiarle entro significati razionali univoci e limitanti; la lingua vedica è esemplare in tal senso, per motivazioni assai speciali che lo stesso Sri Aurobindo ebbe modo di illustrare con una certa dovizia nei suoi scritti di esegesi rigvedica e di linguistica (ovvero, nei due testi da Lei stesso citati, per i quali la ringrazio dei complimenti che tributa alla scorrevolezza delle traduzioni: Il segreto dei Veda e L'origine del linguaggio).

Lo stesso Sri Aurobindo precisa che per tradurre in modo adeguato il Ṛgveda e fare emergere spontaneamente il suo senso più autentico, «non dobbiamo forzare il senso delle parole, né interpretare il medesimo termine ricorrente con traduzioni disparate secondo la convenienza del momento o tradurre diversamente la stessa espressione o lo stesso verso in inni differenti, o fare dell’incoerenza il modello di interpretazione corretta: al contrario, più grande è la fedeltà alla parola e alla forma usata dai ṛṣi, in modo più visibile emergono il senso generale e quello particolare del Veda in una chiarezza e pienezza costanti.» (Il segreto dei Veda).

Venendo alle perplessità che mi esplicita in modo così puntuale e chiaro, secondo me derivano in buona sostanza dal fatto che Lei, per il suo indirizzo formativo, per la sua naturale inclinazione e per la professione che svolge, è abituato a fare abbondante e prevalente uso della parte sinistra del cervello; e così, nel confrontarsi con questo capolavoro di poesia mistica, tende a utilizzare principalmente le facoltà razionali. Mi permetto di ricordarle che è un approccio fondamentalmente sbagliato — o, quantomeno, sommamente riduttivo. La ragione critica può certamente intervenire quando si esamina un testo poetico: essa ha un suo posto preciso (nel caso della Divina Commedia dantesca, come Lei sa meglio di me, ha prodotto risultati mirabili, da Giovanni Boccaccio a Natalino Sapegno) avente i suoi precisi confini che non dovrebbe mai esorbitare, nella vana pretesa di ergersi a guida primaria (se non addirittura esclusiva) nell'universo poetico — essa può diventare un'ottima e preziosa compagna di viaggio, purché non pretenda da noi nulla di più di questo e ci si curi di mantenerla al suo posto, sapendo come un simile sodale abbia l'inveterata tendenza a trasformarsi in un invadente barbassore, non di rado logorroico e ampolloso.

Lo stesso Dante, come è ben noto, precisa che la sua Commedia possiede quattro diversi livelli di lettura, concomitanti o simultanei. Vi è un significato letterale (abhidhā, come viene definito in India), al quale si sovrappone un significato metaforico (il sanscrito lakṣaṇā), un ammonimento di tipo morale e, infine, un significato anagogico (vyañjanā). Perché mai il Ṛgveda dovrebbe essere da meno? Le interpretazioni rigvediche più serie e maggiormente accreditate non sono di per sé false o sbagliate — ma sono delle interpretazioni, per l'appunto, e si limitano tutt'al più ai primi due o tre livelli di lettura: resta il quarto, quello apicale, esoterico, anagogico, che ne rivela il senso più autentico e profondo. Tutto ciò non è così astruso come a prima vista potrebbe apparire a un profano della parola poetica. La stessa poesia moderna si basa su questa triplice o quadruplice possibilità di lettura sovrapposta (basti pensare a poeti come Mallarmé, Rilke, Yeats, Campana, Borges e moltissimi altri). Poniamo caso che un poeta contemporaneo scrivesse i seguenti versi (non si curi della loro forma estemporanea e didascalica, li ho scritti di getto e senza ispirazione, a scopo puramente illustrativo):


Ricevuta la mappa del tesoro

nella prima età verde, prodigai

le mie migliori energie nella cerca.


Non intendo descrivere le lotte

in mare aperto con venti e burrasche:

giunsi infine nell'isola agognata.


Dopo molti decennî di fatica,

d'illusioni fiaccate e d'occasioni

perdute, mi trovai al punto esatto.


Acceso il fuoco invitto e ritempratomi,

presi a scavare fino a consumarmi

le ossa e infine rintracciai lo scrigno.


Ora godo la triplice ricchezza

e dalla sua inesausta abbondanza

traggo ogni bene, pur qui e per sempre.


Converrà certamente con me che nessun lettore, a meno che si tratti di un ingenuo sprovveduto in materia poetica (e non solo poetica!), intenderebbe questi versi nel loro senso più pedestre, credendo che l'autore, novello conte di Montecristo, in gioventù abbia rinvenuto una mappa del tesoro, abbia navigato per tutta la sua vita fino ad approdare, in tarda età, sull'agognata isola ove (stando alla mappa) si troverebbe tale tesoro, scoperto il quale egli visse gli ultimi suoi anni nella più ostentata ricchezza, seppur assediato da dolori reumatici e da altri acciacchi causati dalla lunga ricerca usurante. Risulta ovvio che il poeta intende riferirsi a ben altro! Eppure, questo è esattamente l'atteggiamento di quanti si ostinano a leggere poesia (e, in particolare, la poesia mistica) con una mente razionale esasperatamente indagatrice, cadendo in una interpretazione quantomeno fallace, grossolana, se non addirittura grottesca.

Il Ṛgveda esige un approccio ben diverso da quello iper-razionale: occorre infatti sviluppare una comprensione soprarazionale, di tipo intuitivo — come ogni grande opera di poesia, va vissuta da dentro, direttamente e senza farsi opprimere da fardelli ideologici, dottrinarî, filosofici, teologici o di altro tipo. La ragione può intervenire in un secondo tempo, se lo si desidera, ma durante l'immersione nel sublime poetico essa deve farsi totalmente da parte.

Non di rado, come sappiamo, i poeti mistici (da Jalāl al-Dīn Rūmī a William Blake) utilizzano il linguaggio essoterico per esprimere l'esoterico, eccedendo la ragione e balzando direttamente nella visione, invitando implicitamente il lettore a fare altrettanto. Quando leggiamo i primi versi della Divina Commedia, nessuno immagina che l'Autore, passeggiando nei dintorni di casa sua, si sia introdotto in una selva oscura che non aveva mai perlustrato prima, vi si sia perso e si sia calato in un luogo sotterraneo popolato da esseri dotati di una assai discutibile indole!

Perché mai il Ṛgveda dovrebbe essere trattato diversamente? Perché mai ostinarsi nel cercare di forzare la sua poetica, così straordinariamente musicale e potente, nel letto di Procuste di una qualsivoglia interpretazione? Solo mutilando il testo della sua parte più essenziale e autentica lo si può costringere a rientrare in un tale giaciglio opprimente e riduttivo. Come e più di ogni grande opera di poesia, va vissuta nella sua dimensione squisitamente artistica, soprarazionale e intuitiva. La musicalità, il ritmo, le pure immagini sonore, le nude parole (spogliate da qualsivoglia ideologia, intendo) costituiscono la guida capace di condurci alle soglie del mantra. Ovviamente, per far ciò con una sia pur parziale compiutezza, occorrono due elementi: la lettura dell'originale e l'esperienza diretta delle verità espresse. Una traduzione non può certo pretendere di veicolare la magia del verbo mantrico: può solo cercare di trasferire qualcosa del suo spirito autentico, senza aggiungere sovrapposizioni e interpretazioni di sorta. Mère, accingendosi a tradurre alcune parti di Savitri, notò che «il faudrait etre un poète pour fair ça» (Agenda, 6.10.1971). Personalmente, non potei non accettare una simile sfida, talmente affascinante per un poeta! Pertanto, nelle mie traduzioni poetiche (Ṛgveda e Savitri comprese) mi sono anzitutto attenuto a due caposaldi che reputo ineludibili: l'utilizzo della metrica e l'apposizione dei testi originali a fronte. Il lettore, anche quando non è nelle condizioni di leggere l'originale (non solo di capolavori assoluti come il Ṛgveda e Savitri, ma di un qualunque testo poetico che si rispetti), deve mettere da parte l'attitudine razionalista: una volta individuato e collaudato un simile approccio soprarazionale, il maggiore ostacolo è stato superato, e tutti gli altri impedimenti assumono ipso facto una proporzione talmente irrisoria da poterli superare agevolmente, con quel minimo di buon senso e di discriminazione che un qualunque lettore navigato, avveduto, sensibile possiede abbondantemente.

Prendiamo per esempio il passo rigvedico da Lei abbondantemente citato e contenuto nel terzo inno del I Ciclo: le tre strofe di chiusura, dalla decima alla dodicesima. Si tratta di tre delle circa sessanta strofe rigvediche in cui compare Sarasvatī, e gli esegeti essoterici ci assicurano che sono indirizzati a un fiume antichissimo, ora prosciugatosi, che gli Hindu avevano divinizzato, come d'uso nell'antichità, non solo in India... Sappiamo che i grandi fiumi (il Nilo, il Gange, il Tigri, l'Eufrate, l'Elicona, l'Eridano, il Rodano, il Mississippi, il fiume Giallo ecc.) nell'antichità rivestivano un ruolo cruciale per il benessere del popolo che decideva di stanziarsi sulle sue rive e non c'è da stupirsi che venisse lodato dai poeti e celebrato dai sacerdoti per il benessere e l'abbondanza che prodigava. Nel 32° inno del primo Ciclo rigvedico, nella seconda strofe apprendiamo che il fiume Sarasvatī scaturiva dai monti e si riversava copiosamente a valle, fino a sfociare in un ampio delta nell'oceano. Oggi, la comunità scientifica internazionale conferma l'esistenza di questo fiume in età antichissima: la datazione rilevata dalla Geological Society of India fa risalire la sua nascita a circa novemila anni fa, in corrispondenza del periodo interglaciale accorso durante quella seconda epoca del Quaternario nota con il nome di Olocene: lo scioglimento dei ghiacciai diede per l'appunto vita ai fiumi Sarasvatī e Sindhu (dal nome di quest'ultimo i Persiani trassero l'appellativo di Hindu, in base a quella regola grammaticale secondo cui la esse sanscrita posta a inizio di parola, in persiano veniva invariabilmente trasformata in acca aspirata: pertanto, tale appellativo non era affatto teso a designare una religione ma, più semplicemente, nacque per identificare un popolo stanziato nella parte orientale del suddetto fiume — l'utilizzo di tale vocabolo per contraddistinguere i professanti di una confessione religiosa fu una aberrante mistificazione (tra le tante), avvenuta ben più recentemente, a opera dei colonizzatori europei, per meglio controllare le masse; approfondire un simile aspetto mi porterebbe certamente fuori tema, ma le consiglio caldamente di documentarsi sul come e sul perché gli inglesi crearono faziosamente la 'religione induista' ("Hinduism", per l'appunto) laddove regnava invece (e regna tuttora) un tessuto ben più articolato e affascinante. Sir William Jones (nato a Londra nel 1746 e morto a Calcutta nel 1794), linguista, orientalista, magistrato, fu uno dei primi studiosi europei dei testi sapienziali sanscriti: ne era entusiasta, ma proprio per questo si prese cura di avvertire il mondo accademico europeo di interpretare (vale a dire, manipolare) le traduzioni in modo da renderne il contenuto il più possibile innocuo, altrimenti quei testi avrebbero troppo facilmente scalzato e soppiantato la cultura imperante di cui essi stessi erano i fieri paladini. La ricchezza dei testi indiani (a livello scientifico, filosofico, matematico, mistico, metafisico...) era di troppo superiore ai tanto strombazzati "valori" occidentali; esiste un'epistola privata in cui William Jones caldeggiò l'opera di traduzione dei testi indiani, consigliando al contempo di non farne trapelare il significato più autentico, in quanto ciò "stravolgerebbe la nostra civiltà" europocentrica: "la farebbe crollare". Tornando al nostro fiume Sarasvatī, sappiamo che verso la fine del suddetto periodo geologico, circa quattromila anni fa, una ingente attività tellurica (come testimoniano i sedimenti lacustri analizzati) modificò il territorio al punto da prosciugarne il corso nel volgere di qualche secolo. Nel 1997 il Bhaba Atomic Energy Research Center confermò definitivamente l'esistenza di tale fiume nell'area dell'attuale Rajasthan.

Mi perdonerà la lunga digressione, ma tali scoperte sono troppo intriganti, anche per i nostri scopi: anzitutto, gettano qualche luce sulla datazione del Ṛgveda: infatti, se i loro autori fanno menzione del fiume Sarasvatī, è a ragion veduta, per esperienza diretta, il che implica che la datazione generalmente accordata a tali testi (fornita per l'appunto dagli studiosi europei e che Lei sembra troppo supinamente accettare) è errata e va retrodatata sensibilmente (la cultura occidentale ha fatto di tutto per far credere che le culture altre le siano inferiori e meno antiche, lo sappiamo). Mi permetto quindi di consigliarle di non fidarsi troppo (come invece Lei sembra fare, stando ai numerosi docenti universitarî che mi cita, ai quali pare accordare la massima fiducia) delle traduzioni dei "grandi" orientalisti, quelli che occupano (o hanno occupato) le vane cattedre delle facoltà della cosiddetta 'indologia' (e torniamo al depistamento di chi ha trasformato il temine hindu per designare non più un semplice popolo geografico stanziato nei pressi di un fiume, bensì un gruppo religioso da etichettare e dominare culturalmente e, se possibile, come accadde durante il colonialismo, anche militarmente). L'istruzione scolastica (a tutti i gradi e livelli), come risulta sempre più evidente, è una istituzione creata e alimentata dal potere costituito allo scopo di ammaestrare le masse fin dalla più tenera età, al fine di preservare tale supremazia posticcia (ma dannatamente degradante, retriva e proterva!). I rappresentanti delle istituzioni (scolastiche e non) sono gli scherani di una cleptocrazia che estorce ai suoi sudditi per ingrassare a dismisura, in modo da esercitare la propria autorità e il proprio potere oppressivo. La tanto strombazzata cultura imperante (con le sue cattedre saccenti, le sue 'grandi' case editrici e il resto) è, in realtà, una sottocultura di regime, in cui tutto è attentamente vagliato, selezionato, manipolato e degradato, in modo da mantenere le masse ben addomesticate, offrendo una conoscenza posticcia, deprivata di tutte le verità scomode e reali, allo scopo di confermare a perpetuità la sudditanza del popolo, i cui rampolli escono dalle università con un pezzo di carta (chiamato "laurea", con una presunzione a dir poco imbarazzante!) e si credono per ciò acculturati: è "l'addestramento del pappagallo" (the parrot's training) come efficacemente lo definiva Tagore (premio Nobel per la letteratura).

Tornando al nostro primario oggetto d'indagine, compulsando gli inni in cui compare il nome di Sarasvatī ("colei che scorre"), risulta evidente che identifica non il fiume, bensì la dea dell'ispirazione poetica, le cui correnti si riversano nel poeta ricettivo; soltanto per estensione il suo nome venne dato al fiume più prolifico del luogo, al tempo in cui vissero i compilatori del Ṛgveda (non è dato sapere se questi fossero i reali autori, o se si limitarono a tramandare un testo già esistente — personalmente propendo maggiormente per questa seconda ipotesi, ma non esiste alcuna certezza storica che possa confermarlo in modo probante), le cui acque scorrevano copiose al pari dei fiotti dell'ispirazione divina per il poeta-veggente. Qualcosa di analogo, come è noto, avvenne con il fiume greco Elicona, la cui sorgente, chiamata Ippocrene (Hippocrḕnē, la "fonte del cavallo"), ebbe nascita grazie al divino cavallo alato Pegaso che, secondo il mito, colpì la roccia con lo zoccolo e fece scaturire la sorgente, dove presero a riunirsi le Muse per cantare e danzare: la metafora è lampante. Ricordo peraltro che tali Muse, in origine, erano tre. E non è certo un caso che, tornando nell'India rigvedica, in una decina di strofe (contenute nei cosiddetti inni āpri), Sarasvatī viene invocata insieme a due ulteriori dee: Mahī e Iḷā. Sri Aurobindo ci mostra come a queste tre dee corrispondano le tre principali facoltà poetiche: l'intuizione, l'ispirazione e la rivelazione. Il fatto che nell'antica Grecia le tre Muse fossero collegate alle tre corde del liuto — la corda bassa, la media e quella alta — potrebbe costituire forse un interessante parallelismo; così come può essere interessante notare come le dee celtiche della poesia, le Brigit bè filid, fossero anch'esse tre. Semplici coincidenze? Lascio a Lei valutare.

A ogni buon conto, per venire finalmente al passaggio da Lei citato, intendo dimostrarle come la mia traduzione lo trasponga nel modo più letterale possibile: talmente palese è l'evidenza del suo significato simbolico, che non sussiste alcun bisogno di interpretare o decodificare alcunché.

Riporto anzitutto la mia traduzione in endecasillabi, che a Lei risulta incomprensibile perfino dopo aver letto la disamina effettuata da Sri Aurobindo nel decimo capitolo de Il segreto dei Veda — pertanto, cercherò di affrontare il compito in altro modo, traducendo parola per parola e sottoponendole il risultato.

Purificante, Sarasvatī possa

con multiforme pienezza e sostanza

di pensiero, accettare il nostro yajña. (10)

Lei che a gradite verità persuade,

destando lieti pensieri, Sarasvatī,

il nostro yajña sostenere possa. (11)

Sarasvatī ridesta il grande flusso,

coi raggi della gnosi illuminando

tutti i nostri pensieri, interamente. (12)

(Ṛgveda,I.III)

Ovviamente, se nel passaggio appena riportato ci si riferisse a un fiume, le tre strofe non avrebbero alcun senso. Ma così non è. Se invece Sarasvatī è la dea dell'ispirazione poetica, allora tutto si fa chiaro e perfettamente intelligibile. Ricordo peraltro che, in età classica, quando i letterati sanscriti (al pari dei cinesi) vollero offrire una triplice classificazione dell'arte, utilizzarono proprio l'epiteto sārasvata per designare l'artista più autentico e vero; al grado più basso vi era colui che era diventato poeta dopo avere padroneggiato la tecnica, e veniva per ciò definito aupadeśika (specializzatosi grazie a un meticoloso "apprendimento"): è quello che noi definiamo un 'versificatore' (non un vero poeta, quindi, ma un semplice autore capace di scrivere in versi, grazie alla conoscenza della metrica, come fu il caso di molti poeti di corte) — corrisponde al grado poetico che gli antichi cinesi definivano nēng ("abile"). Al grado successivo sta colui che, appresa la tecnica, si è sottoposto a un'ardua disciplina per cercare di aprirsi ai piani soprarazionali dell'essere, ed è infine riuscito a entrare in contatto con una qualche sorgente poetica genuina: in tal caso, si parla di lui come di un abhyāsika (ovvero, che ha conquistato l'alloro poetico mediante strenuo impegno metodico) e corrisponde al cinese miao ("profondo"... nulla a che fare con il miagolio del gatto!). Infine, al sommo, si trova per l'appunto il sārasvata, ovvero il poeta "innato" (sahaja; come recita il celebre adagio, poeta nascitur non fit), giunto al grado sublime che nell'antica Cina corrispondeva a shēn ("divino"). Sicché, il sanscrito ha preservato il senso autentico della parola vedica sarasvatī. E qui veniamo peraltro a una delle maggiori difficoltà nel tradurre dal vedico: moltissimi termini vedici si ritrovano nel sanscrito, e tuttavia sono abbastanza rarî i casi in cui il significato nelle due lingue corrisponde; più di frequente, il sanscrito ha costretto il senso di ogni singola parola entro un significato univoco, laddove per il vedico (proprio per quel polisemantismo di cui ho fatto menzione) conteneva una molteplicità di sensi che, in alcuni casi, è davvero impressionante e scabroso agli occhi della più rigorosa razionalità. L'oscillazione semantica, nel passaggio dal vedico al sanscrito, è talmente ampia da avere prodotto enormi differenze, a causa del fatto che la nascita e lo sviluppo del sanscrito ha determinato il progressivo passaggio da un'età dell'intuizione (quale fu quella vedica) a un'età della ragione: per conseguenza, si rese indispensabile restringere il campo dei significati e conferire a ogni vocabolo un senso possibilmente univoco e ben definito, non suscettibile a fraintendimento, per migliorare la comprensione e la comunicazione verbale. La transizione, nel caso specifico del sanscrito, non è mai stata condotta fino alle sue più estreme conseguenze, è ciò permise ai grandi poeti sanscriti dell'età classica (Kālidāsa in testa) di produrre una poesia eccelsa, colma di doppi sensi e di raffinate metafore. Ma questa è un'altra storia, ed è prudente tornare al nostro oggetto primario di indagine: ecco dunque la traslitterazione del testo originale rigvedico in questione —


pāvakā naḥ sarasvatī vājebhiḥ vājinīvatī |

yajñaṁ vaṣṭu dhiyā vasuḥ ||10 ||

codayitrī sūnṛtānāṁ cetantī sumatīnam |

yajñaṁ dadhe sarasvatī ||11 ||

maho ārṇaḥ sarasvatī pracetayati ketunā |

dhiyo viśvā virājatī ||12 ||


A questo punto, come anticipato, rimane da tradurre l'intero passaggio parola per parola, e giudicare il risultato finale che se ne ricava. Partiamo, come d'obbligo, dalla decima strofe —


pāvakā"purificante" (effetto catartico attribuito alla dea);
naḥ"noi";
sarasvatīSarasvatī;
vājebhiḥ"dotata di abbondanza, di opulenza" (più precisamente, vāja designa una condizione psicologica dell'essere, caratterizzata da abbondanza interiore, pienezza dell'essere soggettivo, del sé profondo);
vājinīvatī"in pieno possesso della pienezza" (vājinī + vatī), "una sola cosa con la pienezza";
yajñaṁquesto è uno di quei vocaboli che ho preferito non tradurre, perché possiede una abbondanza di significati e di implicazioni tale da impedirmi di trasporlo con un singolo vocabolo, giocoforza riduttivo; per comprenderne il senso, le basterà leggere le note riportate nelle seguenti pagine del volume pubblicato da La Calama in suo possesso: pag. 150 e pag. 298;
vaṣṭu"preferire", "scegliere", "padroneggiare" (lo yajña di cui sopra, operato dai veggenti);
dhiyā vasuḥ"riccamente provvista di intelligenza" (trattasi di parola composta da:
             dhiyā   "pensiero", "intelligenza", "discernimento";
             vasuḥ   "ricco di sostanza").

Come si può notare già da questa prima strofe, nella mia traduzione ho offerto il significato complessivo, senza aggiungere alcunché; anzi, come risulta chiaramente evidente, per non rendere la lettura troppo ostica, per evitare di cadere nella trappola della verbosità letteraria, per non dare al lettore la sgradevole sensazione che stessi interpretando e, non da ultimo, per non conferire alla traduzione il senso di un fumoso misticismo da baraccone, ho operato per sottrazione, per semplificazione (sperando di non essere mai caduto nel semplicismo). Nella fattispecie, ho dovuto stemperare l'immagine che la rigogliosa espressione vedica vājebhiḥ vājinīvatī evoca in modo sublime e che in italiano (e in qualunque altra lingua moderna) apparirebbe sovrabbondante e forse addirittura pleonastica. Si sarebbe potuto tradurre prosasticamente: "Possa la catartica Sarasvatī, che possiede una copiosa varietà di pienezze spirituali e la cui opulenza nella sostanza coscienziale del pensiero poetico è originata dal flusso inesauribile dell'ispirazione, venirci incontro sul nostro percorso iniziatico". Decisamente inaccettabile: qualunque lettore serio avrebbe storto il naso, presagendo (erroneamente, ma non del tutto) una strana puzza di bruciato. A ogni modo, quel che è certo, è che una simile traduzione farebbe apparire i veggenti rigvedici non più come dei poeti genuini quali erano (e sommamente ispirati), ma come dei metafisici seriosi, prosastici e talvolta addirittura pedanti.

Può forse esserle di qualche utilità confrontare l'interpretazione che Sāyaṇa (uno dei massimi intelletti hindu dell'antichità, vissuto in epoca medioevale) diede ad alcune parole vediche e al complesso della strofe in questione, traducendola nel sanscrito classico in modo da conferire un senso pedestremente rituale (pur consapevole che la tradizione accordasse un alto valore spirituale e simbolico agli inni, lui ammise di non essere in grado di comprenderlo e, quindi, da buon brahmano si limitò a fissarne il senso essoterico volto alla celebrazione di riti e sacrifici propiziatorî). Egli, pertanto, trasforma vājinīvatī nel senso di "dispensatrice di cibo"; vājinīvatī diventa "offerta di vivande"; dhiyā vasuḥ viene trasformato in "donatrice di ricchezze materiali a colui che celebra il rituale di adorazione". Prendendosi simili libertà interpretative, si può leggere quel che si vuole, non solo nel Ṛgveda, ma in qualunque altra opera poetica esistente al mondo. Non a caso, gli svariati commentatori rigvedici, come cennavo all'inizio, hanno prodotto le più disparate interpretazioni - alcune (come quella dello stesso Sāyaṇa) realizzate con intenti sinceri e con una certa ingegnosità letteraria, altre semplicemente ridicole e campate per aria.

Procediamo con l'undicesima strofe da Lei citata —

codayitrī"colei che incita" (che suscita);
sūnṛtānāṁ"gioiose verità";
cetantī"coscienza";
sumatīnam"fausti pensieri" (giusti moti mentali);
yajñaṁyajña;
dadhe"reggere", "sostenere";
sarasvatīSarasvatī.

Qui mi pare tutto chiaro e di un'evidenza apodittica tale da non necessitare di commenti. Mi limito a segnalare che, mentre nella precedente strofe ci si concentra soprattutto sui poteri mentali che la dea possiede e arreca, qui si aggiunge implicitamente che Sarasvatī non si limita affatto ad apportare i lumi di una conoscenza intellettuale soprarazionale, ma anche la gioia insita nella verità. Il vate si sta rivolgendo a Sarasvatī con epiteti tesi a contraddistinguerla come una dea della conoscenza e della gioia che ne deriva; il fiume omonimo non può costituire l'oggetto di una simile adorazione-invocazione, la quale è invece rivolta a colei che è in grado di apportare giusti pensieri e gioiose verità (ovvero, quelle parole poetiche in cui la verità e la gioia coesistono mirabilmente). Non c'è nulla da interpretare in questo passaggio e, come accade sovente nella poesia rigvedica (e nella poesia mistica tout court), qui non c'è alcunché di celato dietro un velo simbolico più o meno denso, criptico, arcano: in questo caso, il significato non può in nessun modo essere frainteso ed emerge spontaneamente, con una trasparenza cristallina, simile all'acqua limpida di una sorgente purissima, che scaturisce dall'alto e si riversa copiosamente a valle: l'ispirazione poetica giunge dalla sede della dea e si riversa (più o meno abbondantemente, a seconda del grado di ricettività) nell'umano strumento. Bisogna pure tenere presente che i mantra rigvedici hanno quasi sempre un effetto cumulativo nella loro successione di strofe e di immagini sonore: i versi consecutivi di un inno non si limitano a ribadire i medesimi concetti (come potrebbe sembrare a prima vista, a occhi frettolosi o inesperti): dettagli sempre nuovi e per nulla trascurabili si aggiungono, si palesano, si precisano, offerti in una progressione che diventa sorprendentemente puntuale a chi è in grado di sperimentare direttamente i processi interiori che vengono illustrati.

E arriviamo alla strofe di chiusura dell'inno —

maho"grande", "vasto", "comprensivo";
ārṇaḥ"oceano";
sarasvatīSarasvatī;
pracetayati"ridesta", "risveglia", "fa riaffiorare alla coscienza";
ketunā"percezione" (ketu, "intelligenza percettiva");
dhiyo"pensieri";
viśvā"tutti";
virājatī"illumina", "risplende".

Pure qui, il senso appare chiaro, se non fosse per quel maho ārṇaḥ ("grande oceano") posto all'inizio della strofe, che può confondere e che richiede un doveroso approfondimento. Ovviamente, chi (come il Sāyaṇa sopracitato) enfatizza il significato materiale di Oceano Indiano nel quale, dopo il suo lungo percorso dai monti himalayani il fiume infine confluisce, non può in alcun modo giustificare il senso compiuto dell'intera strofe; viceversa, se teniamo presente che il "grande oceano", nell'intero Ṛgveda (come appare lampante effettuando una disamina di tutti i passi in cui esso compare), rappresenta la distesa sovracosciente dell'essere (sono gli dèi, infatti, a dimorare in tale eccelsa estensione, e da lì agiscono e procedono), così come viene pure menzionato un "oceano inferiore" (salilam apraketam), che rappresenta l'abisso subcosciente (vedi per es. IV.58). In mezzo ai due, tra l'oceano sovracosciente e quello subcosciente, si trovano i sette flussi della coscienza, altrimenti detti i sette piani o le sette dimore (o in altri modi ancora): l'Esistenza, la Coscienza, la Beatitudine, la divina Gnosi, la Mente, la Vita, la Materia. Queste sette acque (che, si precisa, sono "acque che sanno", apo vicetasah) o gradazioni coscienziali, possono potenzialmente emergere in tutta la loro pienezza e manifestarsi nell'essere umano, mediante "l'oceano del cuore" (hṛdya samudra). Esaminando il Ṛgveda nella sua integralità e compiutezza, tale senso traspare nitidissimo e in modo inconfutabile. Evito di addentrarmi in considerazioni più ponderose, ma devo almeno accennare al fatto che il vocabolo vedico mahās (da cui il nostro maho deriva) è teso a identificare un preciso piano di coscienza "onnicomprensivo" per antonomasia, che nel primo vedānta verrà contraddistinto dal termine vijnāna (si veda per es. il mahān ātma della Kaṭha Upaniṣad): è il piano della coscienza sopramentale, ponte di collegamento fra il triplice emisfero superiore dell'Essere (Esistenza-Coscienza-Beatitudine — Saccidānanda) e il triplice emisfero inferiore del Divenire (Mente Vita Materia) accennati poc'anzi. Sicché, l'espressione maho ārṇaḥ potrebbe anche essere tradotta come "l'oceano del piano di coscienza di Mahās" (traduzione che personalmente ho preferito tralasciare, sia per non prestare il fianco a troppo facili critiche denigranti, volte a indicarmi come un traduttore eccessivamente libero e fantasioso, sia perché non è la dea Sarasvatī a presiedere al piano di Mahās, bensì la dea Mahī, come si evince dal suo stesso nome).

Ecco. Spero di essere riuscito, almeno in parte, a rispondere alle sue domande e a fugare i suoi dubbî. Mi ero riproposto di fornire una replica stringata, per non tediarla, e invece mi sono dilungato a dismisura. Spero almeno di averle fornito qualche suggerimento utile sul quale riflettere. In caso contrario, la prego di accettare le mie più sentite scuse e, in ogni caso, la ringrazio per la pazienza nell'avermi letto fino in fondo.
Vive cordialità,
Tommaso
[21 ottobre 2020]


OSSERVAZIONI DI BEPPE PICARO



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