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ĪśvaraŚakti


Īśvara (īśvara) è un termine assai antico e sommamente degno di nota. La sua radice primaria, īś (ईश्), riveste tutta una serie di significati affini: essere capace, avere potere, possedere, regnare, esser padrone, avere padronanza, detenere l’autorità. Nel Ṛgveda troviamo la forma più ancestrale di questo termine: īś che, come verbo, viene utilizzato in X.LXIII.8: ya īśire bhuvanasya (“voi che regnate sul mondo”, riferito agli dèi cosmici); vi troviamo pure la sua radice secondaria īśa (ईश) e il connesso aggettivo derivato īśana (ईशान), che possiamo approssimativamente tradurre con ‘signore’, ‘imperio’, ‘padronanza’, ‘autorità’; īśānaṁ (ईशानं): ‘splendore’, ‘luce’ (collegato in particolare al dio Sole, “Signore dell’intero esistente”, in relazione alle sue qualità illuminative della coscienza), īśānaḥ (ईशान:), īśānas (ईशान), illustre, splendido, ricco. Nell’innodia rigvedica, in forma di epiteto elogiativo rivolto ai vari dèi, esso compare almeno in un centinaio di occasioni, volta per volta indirizzato a Agni (VII.I.16), Indra (VIII.XL.5), i Marut (I.LXXXVII.4), Sūrya (I.CXXX.9), Brahmaṇaspati (II.XXIV.15), Soma (IX.CI.5): esempi offerti a puro titolo indicativo e ben lungi dall’essere esaustivi. Il Śatapatha Brāhmaṇa ricorre a īśana soprattutto per utilizzarlo come epiteto di Agni, mediante il quale viene esaltato il carattere di sovrano del dio del Fuoco mistico (ardente nell’altare del cuore più profondo), in stretta correlazione con Sūrya (di cui Agni è considerato figlio), che rappresenta il Signore di tutte le cose: un passo (VI.I.III.17) specifica che Agni non potrà avere un nome di maggiore grandezza di quello di Īśana, a simboleggiare la peculiare qualità del dio (in quanto jātavedas) di dimorare regalmente (e segretamente) in ogni forma di esistenza manifesta: è, diremmo noi oggi, la divinità immanente, mentre Sūrya rappresenta il Divino trascendente — aspetti dell’unica Realtà. Nel Ṛgveda troviamo inoltre la parola composta īśānaktaḥ (ईशानकृत: - I.LXIV.5), tesa a contraddistinguere l’azione efficace, pronta, energica dei Marut che, come Sri Aurobindo illustra, sono deità protettrici (generalmente al seguito di Indra, ma all’occorrenza pure di Agni e di Vāyu) poste a guardia dell’energia mentale, guide risolute del pensiero illuminato, le quali “agiscono in modo valente”, aiutando l’umano ricercatore in vario modo: in particolare, penetrano nelle caverne dell’incosciente materiale per estrarre il segreto di luce imprigionato al loro interno. Si tratta pertanto di un termine che riveste, a partire dal vedico (e, successivamente, nel sanscrito), una rilevanza importantissima. Senza trascurare la densa Upaniṣad vedica (contenuta nello Yajurveda), intitolata proprio Īśa Upaniṣad e interamente dedicata — ricorrendo a un verbo poetico altamente intuitivo — a quella riconciliazione degli opposti che tanto spazio avrà nell’intera filosofia mondiale. Qualcuno ha perfino tentato di collegare il termine īśvara a ishbaal (Baal, ‘Signore’, era una importantissima divinità presso i Fenici) presente in area mesopotamica ma, per quanto suggestivo possa apparire il collegamento, probabilmente è eccessivamente azzardato o, quantomeno, prematuro in rapporto allo stadio in cui la linguistica comparata si trova al presente.

Nel CLXIV inno rigvedico (contenuto nel I Maṇḍala), indirizzato a Viśvedeva (“tutti-gli-dèi”), ṛṣi Dīrghatamā si chiede: «Come ha fatto l’Uno non-nato a fondare i mondi?» (VI strofe). Illustrando poi, con immagini della più criptica e sublime poesia mistica, in che modo ha potuto l’Uno diventare i Molti (peraltro, senza mai perdere la propria inscindibile unità), grazie alla Potenza creatrice dell’eterno femminino in sé celata.

Ma stiamo correndo troppo! Torniamo alla nostra disamina di partenza: dalla radice īś derivano tutta una serie di parole consimili, già presenti (come abbiamo visto, sia pur di sfuggita) nel Ṛgveda; tuttavia, sarà solo nello Atharvaveda (in VII.102.1 e XIV.VI.4) che īśvara apparirà per la prima volta, nella sua forma di sostantivo maschile, come appellativo generico delle varie divinità vediche. Mentre nel Ṛgveda, oltre alle forme già citate, troviamo pure īśe (in una trentina di occasioni, p.es. in VI.XVIII.11), īśānayoḥ (VII.XC.5), īśānāya (VII.XC.2), īśānāsaḥ (una decina di volte; p.es. XIII.LXXXIII.5), īśānāt (II.XXXIII.9). Poi, decisamente più vicini a noi nel tempo, nella vastissima letteratura sanscrita, abbondano maheśvara, sarveśvara, lokeśvara, pārameśvara e molti altri termini affini. Vi è pure, da non trascurare, quella particolare siddhi yogica nota con il nome di īśitā (ईशिता, ‘padronanza’), consistente nella capacità di ottenere un determinato risultato voluto (yatrakàmàvasàyitva) su un ente animato o inanimato, senza alcun intervento volitivo, avvertendo unicamente nella coscienza dello yogi giunto a perfezione la necessità che la cosa avvenga, e il risultato si produce in modo pressoché spontaneo (ovviamente, si tratta di un potere circoscritto, altrimenti basterebbe che lo yogi di cui sopra affermasse: «che la pace si instauri nel mondo» e cesserebbero immediatamente tutti i conflitti, le violenze e i soprusi, che invece abbondano, purtroppo). Menzioniamo, di passaggio, pure īśitavyaṁ (ईशितव्यं), ‘essere regnato o governato’; īśitvaṁ (ईशित्वं), ‘supremazia’; īśin (ईशिन्), ‘regnare’, ‘comandare’; īśvaratā (ईश्वरता), ‘superiorità’, ‘eccellenza’; īśvaratvaṁ (ईश्वरत्वं), ‘predominio’.

Venendo quindi all’oggetto principale della nostra disamina, il termine īśvara è formato dal già citato īśa e da sva (‘di sé’): pertanto, indica un essere completamente padrone di sé e, in particolare, l’Essere supremo stesso, Sat, il puro Esistente — in quest’ultima accezione, Īśvara rappresenta Colui che è il Signore supremo di tutto, incondizionato e dipendente esclusivamente da se stesso, svatantra.

Nello Atharvaveda, il termine Īśvara viene utilizzato per designare il Puruṣa cosmico in qualità di Signore dell’immortalità (XIX.VI.4). Al femminile, Īśvarī è quel medesimo Essere nel suo aspetto dinamico, creatore. Questo binomio, nell’unità inscindibile dell’Assoluto, viene a costituire la causa prima dell’intera manifestazione cosmica. Īśvara è cit-ānanda, l’Essere supremo assorto nella sua inesauribile beatitudine incondizionata, mentre Īśvarī è cit-śakti, quel medesimo Assoluto nella sua propensione intrinseca e ingenita a rendersi palese, a proiettarsi nel divenire universale che, nella sua essenza fondamentale, è una forma (riflessa, o quantomeno ridotta) di Sé. In altre parole, Īśvarī è l’aspetto operativo di Īśvara, l’onnisciente (sarvajñeśvara), l’Uno senza secondo (ekamevādvitiyam), l’Autogeno (svayambhuḥ). Tutti gli universi possibili e immaginabili sono una parziale emanazione di sé dell’eterna Realtà trascendente. Qualunque principio creativo fuoriesce da Īśvarī in forma di vibrazione seminale, di energia dinamica, di risonanza astrale, di moto perpetuo pur nel suo eterno stato immoto, movens immobile. Per conseguenza, quegli elementi che alla percezione umana ordinaria appaiono come opposti inconciliabili, a partire dall’eterna stasi e dall’altrettanto eterna dynamis (arrivando poi all’apparente dicotomia fra essere e divenire, oppure fra personale e impersonale, fra nirguṇa e saguṇa, fra spirito e materia e tutto il resto: assoluto e relativo, permanenza e impermanenza, ecc.), coesistono nel Parabrahman non come aspetti contrapposti, e nemmeno duali, ma come una singola unità: l’Uno parimpari, evidentemente, non corrisponde affatto a un semplice uno matematico, tanto meno a uno zero incapace di moltiplicarsi inscindibilmente.

La Śvetāśvatara Upaniṣad, contenuta nello Yajurveda e particolarmente incentrata sulla Śakti divina e sulla relazione intercorrente fra Anima (puruṣa, vedico nṛ) e Natura (prakṛti, vedico gñā), in un passaggio in cui la poesia mistica assume accenti di densa metafisica, recita —


मायां तु प्रकृतिं विद्यान्मायिनं च महेश्वरम्‌।
तस्यावयवभूतैस्तु व्याप्तं सर्वमिदं जगत्‌॥

māyāṁ tu prakṛtiṁ vidyānmāyinaṁ ca maheśvaram |
tasyāvayavabhūtaistu vyāptaṁ sarvamidaṁ jagat
|| IV.10 ||


«Occorre esperire Māyā qual Forza della Natura, e il Signore di Māyā (māyinaṁ) qual suo sommo reggente (maheśvaram); l’intero universo è colmo di esseri che costituiscono le varie membra del suo divenire (śravayavabhūtai)».

Cit-Śakti viene dunque riconosciuta come la fonte originaria dell’intero esistente, da cui tutto è sgorgato, sgorga e sgorgherà senza fine (né principio). Ciò che rende possibile l’apparente divisione dell’indivisibile Assoluto viene designato mediante un termine rigvedico il cui significato, col tempo, ha assunto un senso decisamente peggiorativo: Māyā, per l’appunto. Nel tardo vedānta, infatti, Māyā assunse connotazioni assai più ristrette rispetto al suo senso originario e, così, prese a contraddistinguere quel particolare potere di ‘illusione’ che ottunde le entità senzienti dimoranti nel mondo fenomenico (rendendole fatalmente dimentiche della Realtà, del loro vero Sé), mentre in seguito assumerà purtroppo una valenza ancora più ristretta e drasticamente negatrice del divenire universale: il mondo stesso sarà ritenuto una fantasmagorica Illusione creata da una Māyā non divina, adevi māyā — accezione che divenne prevalente (considerata anzi l’unica legittima, il più delle volte; ancora oggi è il senso generalmente accordato a tale termine) nel momento in cui (un paio di millenni or sono, a un dipresso) un certo pessimismo estremista volle figurarsi il mondo come essenzialmente illusorio, condannandolo a un incubo da cui occorre risvegliarsi, in una caduta fatale di senso di questo importante termine sanscrito. In epoca vedica e vetero-upanishadica, per contro, Māyā designava semplicemente la ‘magia’ mediante la quale la grande Creatrice, la divina Coscienza-Forza primordiale, la suprema Potenza ingenerata, genera — o, meglio, estrinseca da sé a perpetuità — gli innumerevoli divenire, tratti dalla sua stessa essenza e sostanza. Lei è reale, e altrettanto reali sono le sue creazioni.

In pratica, Māyā si manifesta nel mondo come Madre Natura, Prakṛti. L’aspetto sensoriale di Prakṛti viene definito nella filosofia sanscrita prapañca (‘espansione’, ‘differenziazione’, ‘multiformità’, ‘diffusione’, ‘amplificazione’, ‘sviluppo’, ‘manifestazione’): la creazione viene percepita attraverso gli organi fisici sensoriali che, nell’uomo e negli altri animali considerati maggiormente evoluti, sono cinque (paṅcendriya), mentre in altre specie animali variano da uno a quattro (non necessariamente corrispondenti a quelli umani). Māyā è dunque un aspetto (quello più superficiale, potremmo dire) della divina Īśvarī, a sua volta presieduta da Maheśvara (il “sommo Īśvara”); il mondo manifesto (jagat) è popolato da entità viventi (jīva), le quali sono esse stesse, nella loro natura essenziale (jīvātman) aspetti o innumerevoli ‘membra’ (non divise, se non in apparenza, formanti anzi un corpo organico indivisibile) di Parameśvara-Parameśvarī (il “supremo Īśvara-Īśvarī”, l’Uno-in-Due, o il Due-in-Uno), altrimenti detto Brahman-Śakti.

Tutto ciò si trova già chiaramente prefigurato nel Ṛgveda, anche se il suo sublime dettato poetico si esprime facendo ricorso a un simbolismo assai più criptico da penetrare rispetto a quello delle Upaniṣad vediche e, in misura assai maggiore, alle post-vediche. In seguito, quando al linguaggio della poesia si andò progressivamente sostituendo (mai del tutto, per nostra fortuna) quello della prosa, si produsse — e non è certo un caso: questi due cambiamenti vanno di pari e si influiscono reciprocamente — un drastico cambio di mentalità, che rese il linguaggio più intellettualmente definito e, al tempo stesso, drasticamente tranchant: se, da un lato, lo sviluppo della razionalità ha permesso una maggiore precisione nell’enunciazione delle verità duttili e multiformi contenute nel Ṛgveda, tale scadimento nel prosaico ha condotto quasi obbligatoriamente alle rigidità dicotomiche del pensiero analitico, giù fino alle dispute tra le varie scuole... Nell’India antica, questo processo di caduta verso il basso si è fermato all’eristica, talvolta particolarmente accesa; in Europa, invece, quando la teologia soppiantò la ricerca filosofica, lo scivolone subì un ruzzolone assai più disastroso nei suoi effetti, sfracellando nel dogma e nell’intolleranza più violenta (inquisizione e roghi).

La Taittirīya Araṇyaka (anch’essa contenuta nello Yajurveda) nella sua decima sezione contiene una strofe in cui viene illustrato il supremo Īśvara (parameśvara):


patiṁ viśvasyātmeśvaraguṁ śāśvataguṁ śivam acyutam |
nārāyaṇaṁ mahā-jñe̱yaṁ vi̱śvātmānaṁ parāyaṇam
|| X.3 ||


«Egli è la meta e il cammino, l’onnipervadente che presiede su tutte le entità; eterno, sempre fausto, è la fondazione immutabile: la conoscenza di questo supremo onnipervasivo dovrebbe costituire il degno oggetto della nostra ricerca».

Molte Upaniṣad minori si soffermano sulla relazione Iśvara-Īśvarī. Per esempio, la Mahānarayaṇopaniṣad (ospitata, in tre versioni leggermente differenti, nello Yajurveda, nel Samaveda e nello Atharvaveda) afferma:


yo vedādau svaraḥ prokto ve̱dānte ca pratiṣṭhitaḥ |
tasya pra̱kṛti līnasya yaḥ paras sa maheśvaraḥ
|| 4 ||


«L’Uno è proclamato al principio della recitazione vedica e in conclusione al vedānta: si tratta dell’Unico che permane dopo la dissoluzione di Prakṛti, quando la sua Śakti si ritira in Lui qual supremo Maheśvara».

In tempi decisamente più recenti rispetto all’antichità vedica, pure Patañjali (nell’intento di riaggregare i sistemi sāmkhya e yoga in un unico corpo gnoseologico, come già era in origine) volle offrire una definizione di Īśvara, in due dei suoi celebri Yoga-Sūtra, che riportiamo qui:


tatra niratiśayaṃ sarvajña-bījam ||(I.25)
sa pūrveṣām api guruḥ kālenana-vacchedāt
||(I.26)


Lo stile altamente conciso (aforistico, per l’appunto) di Patañjali richiede una traduzione che sfiora l’esegesi, e ce ne scusiamo: «Fra i disparati livelli del Puruṣa [kṣara e akṣara puruṣa, adhikarika puruṣa, mukta puruṣa, uttama puruṣa o puruṣottama ecc.], Īśvara [tale nome si trova in realtà nel 24° aforisma, mentre qui è chiaramente alluso] costituisce lo stato di coscienza che non può essere determinato [trattandosi dell’Indeterminato per eccellenza]: si può unicamente esperirlo quale apogeo della coscienza, conducente al Pārabrahman. In Lui risiede la più perfetta (niratiśaya) semenza di jñāna [conoscenza diretta], in quanto sorgente o principio primo; in Lui riposano i samskāra [tracce mnestiche] e le formazioni primeve [contenute in nuce nell’illimite Brahmāṇḍa, il mitico Uovo cosmico primordiale], trascendendo Egli il tempo (kāla) ed essendo il Guru primevo».

Esiste inoltre una Iśvaragitā, sulla quale non è di alcun frutto qui soffermarsi, limitandoci a ricordare che costituisce i primi undici capitoli della seconda sezione del Kūrma Purāṇa; essendo frutto di una deriva religiosa (relativamente recente, rispetto ai testi finora trattati), non rientra nei nostri scopi la sua valutazione.

Ben più spazio, nella nostra sia pur breve disamina, merita la Bhagavadgītā che, dal canto suo, descrive Maheśvara in questo modo:


उपद्रष्टाऽनुमन्ता च भर्ता भोक्ता महेश्वरः।
परमात्मेति चाप्युक्तो देहेऽस्मिन्पुरुषः परः || XIII.22 ||


«In questo corpo dimora quell’Uno che è Maheśvara, il Signore supremo, testimone di tutto, e il Sé è anch’esso quel sommo Puruṣa, sostegno e il fruitore dell’intero esistente».

Il “testimone” di cui sopra corrisponde a sakī, uno dei principali attributi del Puruṣa, che gli permette di restarsene distaccato, non coinvolto nell’operato della Prakṛti. La strofe appena citata (ricchissima di sfumature della massima rilevanza, che la traduzione offerta riesce solo parzialmente a veicolare e che richiederebbe pertanto una approfondita esegesi) accenna a ulteriori attributi, altrettanto importanti: il puruṣa, infatti, non si limita soltanto al ruolo di osservatore (anumantā) della natura: egli è pure il sostenitore (bhartā) e finanche il fruitore (bhoktā) delle azioni della natura (prakṛti); altrove, la Gītā gli assegna inoltre la funzione di conoscitore (jñātā) e, infine, al sommo, di sovrano (īśvara, per l’appunto!): il puruṣa individuato, mediante una presa di coscienza concreta e progressiva di tutti questi attributi nella prassi esperienziale, giunge quindi non soltanto a distaccarsi dalle attività della natura, la cui identificazione lo rende schiavo (non-sovrano, anīśa) e impotentemente coinvolto nel fenomenico, ma pure a determinare le conseguenze e a impartire le stesse direttive alla natura, essendo egli stesso, in realtà (una realtà che ciascuno deve rendere operativa nella propria esperienza, nella propria vita, nel proprio essere cosciente) la causa effettiva dei moti generati dalla prakṛti.

Esiste un ordine, erroneamente ritenuto immutabile, che agisce costantemente in natura. Ma non si tratta di un ordine fisso: al contrario, è decisamente progressivo; nel Ṛgveda è citato in continuazione, mediante il vocabolo tam (cfr. il latino rectum) e indica la Verità in divenire, mentre satyam contraddistingue la medesima Verità nella sua condizione assoluta ed eterna — si tratta ovviamente della medesima Verità unica, scorta però da due diverse prospettive, eterna o in fieri, statica o dinamica. L’ordine progressivo rappresentato da tam è di tipo ascendente, in cui però (dettaglio fondamentale) a ogni passaggio a un livello superiore, i livelli inferiori non vengono affatto annullati: al contrario, vengono assunti e trasformati per servire di base al nuovo livello resosi manifesto, in una scala ascensionale probabilmente infinita. Questo perché il vero indirizzo che la Natura persegue (e che gli esseri umani ancora non conoscono e seguono per lo più in modo incosciente e maldestro), le proviene dalla divina Soprannatura — Śakti, Īśvarī. Tale ordinamento crescente in sanscrito è considerato una niyati (‘necessità’ imprescindibile): in pratica, Prakṛti, la natura cosiddetta meccanica, non procede a casaccio, poiché a dispetto della sua azione apparentemente caotica e immensamente prodigale (che all’umana ragione appare eccessivamente dispendiosa, con una esagerata presenza di quelli che la fredda ragione calcolatrice considera come un’inverosimile quantità di inutili sperperi), persegue i dettami di Īśvarī. Questo il senso vero alla base dell’evoluzione delle specie che, dal puro regno materiale, ha condotto la nostra Terra allo sbocciare e all’instaurarsi del regno vegetale prima e di quello animale dopo; quindi, all’interno del regno animale, la comparsa dell’uomo segna un drastico punto di svolta (il passo della riflessione, è stato definito), in cui l’individuo incomincia a interrogarsi su di sé e sul mondo circostante, per tentare di comprendere il significato di entrambi. L’ingiunzione perseguita da prakṛti, quella niyati ricevuta dalla propria fonte (ovvero, per usare un linguaggio meno freddo, che la Madre Divina impartisce a Madre Natura), viene eseguita inconsciamente dal samaṣi jīva, ovvero dall’essere individuato, sia esso minerale, vegetale, animale o altro (finanche gli dèi ne sono soggetti); in una simile visione, il libero arbitrio esiste, sebbene i suoi limiti siano evidentemente circoscritti — o, per essere più precisi, si amplino a misura che l’essere senziente individuato acquisisce una progressiva consapevolezza del proprio vero sé: all’apice della coscienza, il sé individuale è pienamente libero, avendo raggiunto la completa identificazione con l’Essere supremo, che costituisce la propria imprescindibile realtà essenziale.

Nella coscienza di Īśvara-Īśvarī non esiste passato né futuro: tutto è contenuto in un unicum atemporale; è solo la coscienza limitata del jīva a percepire la distinzione fra passato, presente e futuro e, per conseguenza, l’influsso derivante dal proprio trascorso karma, in forma di saṁskāra, di guṇa e di vāsanā. Affinché l’essere individuale separato (jīvahanta) possa arrivare a cogliere il proposito segreto di Madre Soprannatura, occorre anzitutto esperire la propria natura come strumentale e giungere a identificarsi con il proprio vero sé (jīvātman), una sola cosa con il Sé universale e trascendente: ciò rende l’individuo, nella terminologia rigvedica, svārājya, totalmente ‘sovrano di se stesso’, ovvero del proprio vasto e complesso regno interiore. Tuttavia, i poeti-veggenti rigvedici miravano a diventare anche sāmrājya (‘sovrani del regno esterno’), in modo da arrivare a plasmare la realtà fenomenica a immagine del Reale e, nel far ciò, si accorsero per vie sperimentali che occorre accedere alla divina coscienza gnostica (vijñāna) che nel Ṛgveda è chiamata mahat, la quale costituisce una sorta di ponte di interconnessione fra i due emisferi dell’essere: parārdha e aparārdha (sempre per attenerci alla terminologia rigvedica), l’emisfero superiore dell’Essere e quello inferiore del Divenire. Queste due esperienze (la presa di coscienza della Realtà suprema che ciascuno di noi segretamente è, e l’ingresso nella coscienza-di-verità gnostica sopramentale) non sono necessariamente concomitanti e neppure consequenziali (anzi, nel corso della storia umana a noi nota non lo sono state quasi mai): la mistica post-vedica, nel mondo intero, ha perlopiù seguito un cammino di spersonalizzazione di tipo ascetico, di spoliazione, mirante a liberarsi del fenomenico (di tutto ciò che è strumentale) come di un fardello inutile e ingombrante, per fondersi nell’Assoluto indifferenziato o, più di frequente, in un qualche paradiso aldilà — l’obiettivo delle mistiche ‘moderne’ (degli ultimi tre millenni, grosso modo) consiste infatti nel ripudiare il mondo materiale (la ‘carne’, in chiaro senso dispregiativo) per accedere a un qualche paradiso, oppure all’estinzione di sé (nirvāṇa) o, altra alternativa ancora, a immergersi nell’Essere puro, in un volo dal Solo verso il Solo (per riprendere l’efficace immagine di Plotino, psüchḕ mónoü pròs mónon - Enneadi,VI.IX.XI.50), totalmente dimentichi del divenire universale, giudicato per l’appunto un incubo irreale da quale occorre destarsi. Il Ṛgveda reca invece la testimonianza straordinaria (una delle poche, e sicuramente la più vetusta a noi pervenuta), di una gloriosa stirpe di sofi miranti all’unificazione fra Cielo e Terra, Spirito e Materia: essendosi costoro accorti, nella prassi esperienziale, che il Divenire è un’eterna manifestazione dell’Essere, hanno osato comprendere il motivo per cui l’Assoluto, eternamente pago di sé, non disdegna affatto di manifestarsi nel proprio eterno Divenire e di accettare le deformazioni finora presenti (giocoforza, l’evoluzione della coscienza partendo dall’incosciente, per un preciso scopo); i veggenti rigvedici non tardarono a capire che la manifestazione cosmica è incessante e che si snoda lungo una serie infinita di cicli, con un preciso fine teleologico. La nostra coscienza limitata (citta) essendo in realtà parte integrante della Coscienza divina (cit), nulla le è impossibile: ne consegue che nulla si trova oltre la nostra portata, al di fuori delle capacità di comprensione, di visione, di esperienza e di azione che ciascuno di noi potenzialmente dispone. E, una volta afferrato il movente segreto dell’evoluzione e dei cicli cosmici, i vati rigvedici ebbero l’ardire di farsi essi stessi strumenti (in forma pionieristica) del grande Disegno divino nel mondo.

In epoca post-vedica questo sublime ideale di trasformazione del mondo, come si cennava, si eclissò più o meno totalmente — ed ecco che Īśvara, nella forma incarnata di Śrī Krishna, volle riproporlo, almeno in parte; nella Bhagavadgītā (al IV canto), il Beato offre il suo stesso esempio a modello:


अजोऽपि सन्नव्ययात्मा भूतानामीश्वरोऽपि सन्।
प्रकृतिं स्वामधिष्ठाय संभवाम्यात्ममायया || 6 ||


«Io, il Non-nato, il Sé imperituro, Signore di tutte le esistenze, pur essendo al di sopra della Prakṛti e determinandola, per mia libera volontà mi rendo manifesto mediante la mia stessa Māyā».

La “volontà” di Īśvara ha un preciso scopo, pur non rientrando nelle intenzioni della Gītā svelarlo nel dettaglio: a Krishna è sufficiente offrire anzitutto il proprio comportamento quale esempio da seguire, come egli stesso precisa nel III canto —


यद्यदाचरति श्रेष्ठस्तत्तदेवेतरो जनः ।
स यत्प्रमाणं कुरुते लोकस्तदनुवर्तते || 21 ||
न मे पार्थास्ति कर्तव्यं त्रिषु लोकेषु किञ्चन ।
नानवाप्तमवाप्तव्यं वर्त एव च कर्मणि || 22 ||
यदि ह्यहं न वर्तेयं जातु कर्मण्यतन्द्रितः ।
मम वर्त्मानुवर्तन्ते मनुष्याः पार्थ सर्वशः || 23 ||


«Qualunque azione un individuo eccellente compie, la moltitudine la prende da esempio.

Non esiste azione che Io [Īśvara] sia costretto a eseguire nell’intero trimundio, né esiste cosa alcuna che debba procacciarmi, pur tuttavia, continuo ad agire.

Se Io restassi sempre assorto senza agire, gli uomini cadrebbero nell’indolenza, seguendo il mio esempio».

Oggi, quel medesimo Īśvara-Īśvarī, nelle umane incarnazioni di Sri Aurobindo e Mère, ha deciso che era ormai tempo di riportare alla luce gli antichi Misteri, di renderli comprensibili e palesi all’intera umanità, in una riabilitazione divina della materia e, soprattutto, di renderne possibile la loro attuazione: è tutto l’Opus di trasformazione della Materia da Essi stessi iniziato e che, da dietro le quinte, stanno tuttora portando a compimento, con la collaborazione o l’opposizione di ciascuno di noi, consciamente o inconsciamente. A dispetto delle apparenze, sempre più catastrofiche e inquietanti, si è prodotta un’ormai insanabile frattura in seno all’umanità, una separazione fra i vivi e i morti (per fare ricorso a una pregnante immagine presente nell’Apocalisse di Giovanni, in chiusura del Nuovo Testamento biblico), ovvero, interpretando tale immagine alla luce della nostra percezione, una spaccatura fra quanti coltivano la sincerità del cuore e della mente, della volontà e dell’azione e che, per conseguenza, scelgono di fare uso del buon senso, della ragione, della sensibilità e dell’intuizione (vale a dire, tutte quelle doti peculiari che dovrebbero contraddistinguerci in quanto esseri umani: nulla di straordinario, pertanto) e — sul versante opposto — quanti invece preferiscono lasciarsi incancrenire, seguendo un becero impulso gregario, belluino, non facendo uso di quelle peculiarità prettamente umane appena accennate o, addirittura, cercando di assecondare pulsioni predatorie e opportuniste, comportandosi come cinici e avidi rapaci, del tutto privi di empatia e, anzi, di una crudeltà disumana. I primi tentano di accordarsi al Grande Ritmo (il rigvedico tu, direttamente derivato, sotto il profilo etimologico e semantico, dal tam sopracitato), mentre gli altri sono ormai dei ritardatari dell’evoluzione e hanno decretato il loro inevitabile declino e la loro definitiva scomparsa. Siamo appena all’inizio di un grande sovvertimento epocale. Dovremo quasi sicuramente attraversare passaggi difficili e tortuosi, però la vittoria è sicura, non dipendendo essa dalle creature inconsapevoli, ma unicamente da Parameśvara-Parameśvarī. Dalla massa non si pretende alcuna ardua tapasyā, né che sviluppi capacità spirituali al di sopra della media: sarebbe più che sufficiente essere onestamente uomini, come suggerisce il Ṛgveda in una strofe contenuta nel suo ultimo Maṇḍala:


taṁtuṁ tanvanrajaso bhānumanvihi
jyotiṣmataḥ patho rakṣa dhiyā kṛtān |
anulbaṇaṁvayata joguvāmapo
manurbhava janaya daivyaṁjanaṁ
||6||


X.LIII.6.

«Proteggete i Sentieri rifulgenti
aperti dal Pensiero; senza falle
tessete l’Opera dei grandi Vati;
l’essere umano dunque diventate,
il popolo divino generate;
aguzzate le Lance della Gnosi
per progredire verso l’Immortale».



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