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LE SETTE SORELLE


Molte antiche culture, a partire dai testi rigvedici, contengono riferimenti a un gruppetto di misteriose dee conosciute come le “sette Sorelle”, con narrazioni che spesso si equivalgono in parecchi dettagli singolari e significativi. Diverse congetture sono state tentate per cercare di comprenderne il significato e, come sempre, è nel Ṛgveda che troviamo la chiave del loro più profondo e autentico simbolismo.

Oggi, la scienza tende a identificare tali sette Sorelle con le Pleiadi (conosciute anche come le Sette Sorelle, per l’appunto) situate a circa 440 anni luce da noi, nella Costellazione del Toro; si tratta di un ammasso formato da una trentina di stelle (pari a circa 800 masse solari), ma sei sono le uniche visibili a occhio nudo (a dicembre, nella zona settentrionale del cielo). Senonché gli studiosi, dopo attente analisi, sono giunti alla conclusione che centomila anni fa la costellazione delle Pleiadi dovesse apparire piuttosto diversa dall’attuale.

A causa della loro brillantezza e vicinanza, le sette stelle delle Pleiadi sono note dall’antichità: sono citate per esempio da Omero, da Tolomeo e da Esiodo.


Πληιάδων Ἀτλαγενέων ἐπιτελλομενάων

«Quando sorgono le Pleiadi, figlie di Atlante,

ἄρχεσθ᾽ ἀμήτου, ἀρότοιο δὲ δυσομενάων.

comincia la mietitura; l'aratura, al loro tramonto.

Αἳ δή τοι νύκτας τε καὶ ἤματα τεσσαράκοντα

Queste sono nascoste per quaranta giorni

κεκρύφαται, αὖτις δὲ περιπλομένου ἐνιαυτοῦ

e per altrettante notti; poi, inoltrandosi l'anno,

φαίνονται τὰ πρῶτα χαρασσομένοιο σιδήρου.

esse appaiono appena che si affili la falce.»

(Esiodo, Le opere e i giorni, III, vv. 382-386)


Il più antico testo in lingua volgare di cosmologia noto, La composizione del Mondo di Restoro d’Arezzo, del 1282, si riferisce ripetutamente alle Pleiadi come a un insieme di sei stelle. Fin dalle epoche più antiche e nelle varie culture, tuttavia, questo gruppo di stelle viene associato al numero sette.

Ovidio affermò che Quae septem dici, sex tamen esse solent (“le quali si dice siano sette, ma tuttavia sono solite essere sei”). Giovan Battista Odierna, all’inizio del suo De Admirandis Coeli Characteribus spiega come il dilemma del numero esatto delle componenti visibili sia un problema avvertito da molti altri studiosi del passato; e aggiunge che chi ha la vista acuta ne può identificare sette, mentre chi non è particolarmente dotato può arrivare solo a scorgerne cinque.

Il “disco di Nebra”, un manufatto di bronzo del 1600 a.C. trovato nell’estate del 1999 a Nebra, in Germania, è una delle più antiche rappresentazioni note del cosmo: in questo disco le sette Pleiadi sono il terzo oggetto celeste (in alto a destra) chiaramente distinguibile dopo il Sole e la Luna.



Presso gli antichi Greci ricorreva il mito della “Pleiade perduta”: secondo la tradizione, citata anche da Arato, si tratta di Elettra, che si diceva essere velata in viso in segno di lutto a causa della distruzione di Troia; un’altra narrazione vuole che la Pleiade velata fosse Merope, vergognandosi di essere l’unica delle sette ad aver sposato un mortale. Un’ulteriore narrazione la identifica con Celaeno, che cadde fulminata. In ogni caso, nella mitologia greca tali sette deità vengono indicate quali sorelle di Atlante. Come è noto, il Titano venne costretto a sorreggere i pilastri del cielo per l’eternità e, a causa di ciò, fu impossibilitato a proteggere le sue sorelle. Così, quando il cacciatore Orione tentò di rapirle, Zeus andò loro in soccorso e le trasformò in stelle. Senonché, una delle sorelle si era per l’appunto innamorata di un essere umano e, per non essere trasformata in stella, decise di nascondersi: questo, si tramandava, il motivo per cui nel cielo sono visibili solo sei stelle facenti parte della costellazione delle Pleiadi.

Un racconto non molto dissimile viene tramandato presso gli aborigeni australiani. In molte tribù aborigene, le Pleiadi sono un gruppo di sette sorelle, sovente rappresentate come un gruppo di giovani vergini rapite da Kidili (“l’uomo della Luna”) e associate a cerimonie sacre celebrate da donne. Sempre presso gli aborigeni, sono le Pleiadi a determinare l’inizio dell’inverno, con la loro comparsa nel cielo.

Per la tribù aborigena Yolngu, le tre stelle della cintura di Orione sarebbero tre giovani uomini che, andati a pesca con una canoa, riuscirono a catturare il leggendario Re-dei-pesci, rappresentato dalla nebulosa di Orione. Presso gli aborigeni dell’Australia centrale Orione è considerato un “cacciatore di donne” (come il greco Orione, quindi) e, in particolare, delle donne delle Pleiadi; ma mentre dava loro la caccia, a una di esse è accaduto qualcosa di inaspettato: a seconda delle versioni tramandate dalle diverse tribù, sarebbe morta, oppure sarebbe riuscita a nascondersi, o ancora sarebbe stata tralasciata in quanto troppo giovane o, infine, sarebbe stata rapida da qualcun altro. Per questo, secondo tali tradizioni, soltanto sei sono visibili.

Analoghe storie sulla “Pleiade perduta” sono state rintracciate dagli studiosi in altre zone dell’Europa (per esempio presso i Celti e i Vichinghi – questi ultimi le conoscevano come “le galline di Freyja”), in Africa, presso i Nativi d’America, nel Borneo, in Guatemale, in Indonesia, in Giappone, in Cina, in Nepal, in India. Quasi tutti i racconti, pressoché ovunque, si riferiscono a sette sorelle collegate con le Pleiadi, e precisano che soltanto sei di esse risultano visibili, mentre la settima viene ritenuta invisibile. Gli accenni più antichi sono contenuti, come si cennava, nel Ṛgveda, mentre presso gli aborigeni il racconto si tramanda – a detta degli studiosi – da almeno cinquantamila anni (molto tempo prima che se ne trovi traccia in Grecia, quindi).

La Cultura di Monte Alto e altre culture del Guatemala come gli Ujuxte e i Takalik Abaj costruirono i loro primi osservatori utilizzando come riferimento le Pleiadi, che chiamavano pure loro “le sette Sorelle”, credendo che quella parte del cielo costituisse la vera origine dei loro popoli.

Il sorgere eliaco delle Pleiadi (attorno al mese di giugno) indicava il nuovo anno per i Maori della Nuova Zelanda, che chiamavano l’ammasso stesso Mataariki; una festa con tale nome aveva luogo nelle Hawaii.

Gli antichi Aztechi (Messico e Mesoamerica) basavano il loro calendario sulle Pleiadi; il loro anno iniziava quando i sacerdoti individuavano le sue stelle a est subito prima del sorgere del Sole, nella chiara luce dell’aurora; il nome che questo popolo dava all’ammasso era Tianquiztli.

Secondo i Seri del Messico nordoccidentale, queste stelle erano sette donne che stavano per dare alla luce degli esseri. La costellazione era nota come Cmaamc, apparentemente un antico plurale del termine cmaam, ossia “donna”.

Fra i Ban Raji, un popolo seminomade che viveva fra il Nepal occidentale e l’India del nord, le Pleiadi erano chiamate “sette cognate e un cognato” (Hatai halyou daa salla), e quando sorgevano sopra le montagne ogni notte, potevano, secondo la loro cultura, vedere i loro antichi parenti.

Nell’astronomia cinese le Pleiadi sono uno dei 28 Xiu (posizioni della Luna) della Tigre Bianca, e sono indicate come Chioma (Cinese: 昴, Mǎo).

In Giappone, le Pleiadi sono conosciute come Subaru (l’ideogramma utilizzato per indicarle è lo stesso usato in Cina), nome che poi è stato scelto per la casa automobilistica omonima, nel cui logo appaiono sei stelle raffiguranti le cinque componenti più piccole attorno alla stella principale. Anche per il telescopio dell’Osservatorio di Mauna Kea sulle Hawaii, è stato scelto il nome giapponese delle Pleiadi.

Presso i Lakota del Nordamerica esisteva una leggenda che legava l’origine delle Pleiadi con la un monumento naturale oggi conosciuto come “la torre del diavolo”; e i Kiowa avevano un mito simile a quello dei Lakota per spiegare la nascita delle Pleiadi. Secondo le loro credenze, ci furono sette giovani nubili che si allontanarono per giocare e furono individuate da alcuni orsi giganti che, appena le videro, iniziarono a inseguirle. Durante la fuga le giovani si rifugiarono sulla cima di una roccia e pregarono lo spirito della roccia di salvarle; sentendo le loro suppliche, la roccia iniziò a crescere in altezza, dal suolo verso il cielo, in modo che gli orsi non potessero raggiungerle. Una volta raggiunto il cielo si trasformarono nelle stelle che compongono le Pleiadi. Gli orsi, nel tentativo di arrampicarsi sulla roccia, lasciarono su di essa dei profondi solchi, oggi osservabili sui fianchi della torre del diavolo summenzionata.

Presso i popoli delle Ande, le Pleiadi erano associate all’abbondanza, poiché ritornavano visibili nell’emisfero australe nel periodo della raccolta; in lingua quechua sono chiamate collca, il “deposito”.

Le Pleiadi rivestono notevole significato anche in campo astrologico, nelle sue diverse varianti praticate in tutto il mondo. Nell’astrologia occidentale rappresentano un fronte contro le sventure, mentre nel Medioevo erano considerate un’unità astrologica singola nelle stelle fisse; i materiali a cui erano associate erano il quarzo e il finocchio. Nell’astrologia esoterica i sette sistemi solari girano attorno alle Pleiadi. Secondo l’astrologia indiana le Pleiadi sono conosciute come l’asterismo (nakṣatra) Kṛttikā (“coltelli” in sanscrito). Le Pleiadi erano chiamate “le stelle del fuoco” e la loro divinità è il dio vedico Agni, il dio del fuoco mistico. Sono considerate tra le nakṣatra più prominenti, associate alla cocciutaggine.

Prima di addentrarci nelle citazioni rigvediche delle sette sorelle, aggiungiamo che, secondo gli scienziati, le stelle delle Pleiadi (legate da forza di gravità) non sono fisse, e centomila anni fa la stella conosciuta con il nome di Pleione si trovava a maggiore distanza dalla stella Atlante rispetto a oggi, quindi era più facile da vedere, mentre oggi risulta quasi completamente nascosta da Orione (a occhio nudo le due stelle sembrano una sola: unicamente i telescopi più potenti sono in grado di distinguerle; mentre nell’antichità pare che si potessero notare distintamente le due stelle, così che il loro gruppo era composto da sette stelle; solo successivamente una di esse venne eclissata da Orione).

Aggiungiamo inoltre che alcuni poeti italiani moderni citano le Pleiadi.

Giovanni Pascoli ne Il gelsomino notturno chiama le Pleiadi “Chioccetta”, paragonando l’ammasso a una chioccia in un’aia azzurra seguita da un pigolio di stelle.

Gabriele d’Annunzio aveva intenzione di chiamare i sette libri della sua raccolta “Laudi” come le sette stelle principali delle Pleiadi, ma pubblicò solo cinque libri, cioè Maia, Elettra, Alcyone, Merope e Asterope.

E adesso immergiamoci finalmente nel Ṛgveda per cercare di estrapolare alcuni passi in cui vengono citate le Sette Sorelle e, con l’aiuto di Sri Aurobindo, per comprenderne il significato più profondo.

Partiamo proprio da una citazione – come sempre illuminante – di Sri Aurobindo:

«Lo stadio più avanzato del maestoso movimento costituito dallo yoga rigvedico, non si attua compiutamente e in modo definitivo con il mero risveglio della Forza divina nella nostra natura mortale (poiché esso, di per sé, non apporta la perfezione alla nostra natura fisica e mentale nei proprî distinti livelli), ma solo quando, in conseguenza di tale risveglio, avviene una successiva elevazione progressiva della nostra umana vita, oltre la mentalità materiale che attualmente costituisce la nostra base, fino al raggiungimento del reame gnostico della pura verità, quel ṛtasya yonau ove risiede la legge spontanea, l’essere vasto che non può essere limitato da alcunché. [...] Nell’ampiezza sconfinata del sé gnostico, l’intera molteplicità dell’essere, integrale e vittoriosa, si accresce in modo da assurgere a una simile vastità. È precisamente a quel livello dell’essere che occorre elevarsi, in quel grembo della verità realizzata e fattiva, ṛtaṁ, che costituisce la peculiare dimora della forza sopramentale — lì si trova la pace immota e, al tempo stesso, l’operare libero e privo di sforzo delle sette Sorelle, da sempre unite e finalmente rivelate in tutta la loro sororale armonia.» (da “Hymns to the Mystic Fire”).

Le sette Sorelle di Sarasvatī rappresentano quindi le variegate correnti dell’ispirazione che la dea riversa nella coscienza dell’umano scopritore. La settima potrebbe, perlopiù invisibile, sarebbe la più difficile da cogliere per l’umano aspirante. Sarasvatī rappresenta la dea dell’ispirazione divina stessa. L’inno 61 del sesto Ciclo rigvedico ne fa menzione, nel seguente passaggio:


La più adorata, che ha sette Sorelle,
il nostro inno celebri: Sarasvatī.
   [VI.61.10]


In un altro passaggio, le sette dee vengono indicate come sorelle del dio Sole (dio di Verità e d’illuminazione):


Signore d’ogni cosa fissa o in moto,
nell’intera Distesa egli dirama
le sue sette Sorelle illuminanti,
per portare la gioia e l’abbondanza.   
[VII.66.15]


Mentre in un ulteriore passaggio, esse vengono poste in stretta relazione con il dio Soma (il dio della beatitudine divina):


Stillando Ghṛta, il Soma soave
delle sette Sorelle cola a Fiotti
dal Seggio dell’ardente Verità.   
[VIII.59.4]


In altri passi è il Varuṇa oceanico, in quanto sovrano di tutte le Acque (rappresentative dei vari strati dell’essere), a essere considerato loro fratello:

«Nell’innalzarsi dei fiumi, è il fratello
delle sette Sorelle, e sta con loro».

Altrove i riferimenti si fanno più criptici, colmi di verità mistiche che quanti hanno compulsato “Il segreto dei Veda” di Sri Aurobindo non faticano a comprendere:


Fattesi Madri, le sette Sorelle,
nel Grembo delle Acque, il Re del mondo,
il trionfale Neonato accudiscon:
Soma, Gandharva del Cielo e dell’uomo.   
[IX.86.36]


La loro voce le sette Sorelle
fanno udire, o Sofo, e ti conducono
sul Percorso del Carro di Vivasvat.
   [IX.66.8]


Desiderando le sette Sorelle,
l’onnisapiente eleva il loro Miele
perché possa ottenere la Visione;
colui che è nato dai tempi remoti
opera dall’interno e cerca e trova
nel Mondo astrale il coperchio di Pūṣan.
   [X.5.5]


Per quest’ultima citazione, eccezionalmente, forniamo la traslitterazione dell’originale vedico, denso com’è di sottili allusioni di sublime poesia –


sapta svasṛraruṣīrvāvaśāno vidvānmadhva ujjabhārā dṛśe kam |
antaryeme antarikṣe purājā icchanvavrimavidatpūsaṇāsya ||


Le sette Sorelle possenti, in quanto foriere di Luce, hanno fatto crescere colui che pienamente gode la felicità, il dio Agni, rappresentato bianco alla sua nascita, rosso una volta cresciuto. Le Giumente hanno circondato il bambino appena nato (ovvero, il fuoco interiore dell’aspirazione, appena nato nell’umano adepto), lavorando su di lui e operando, per suo tramite, nell’essere umano (vedi III.I.4).

La connessione delle sette Sorelle con la luce illuminativa, la gnosi apportatrice di conoscenza del vero Sé in noi, la Luce-di-Verità, in definitiva, è palese:


Sette Sorelle, in coro, i nomi inneggian
delle sette Giovenche-della-Luce.
   [I.164.3].


Come solitamente accade, le rappresentazioni materiali (in questo caso, le stelle delle Pleiadi) sono simboli tesi a conferire una maggiore concretezza a tali principi divini, in modo da renderle più facilmente abbordabili a quegli esseri umani che non possiedono ancora la capacità di entrare in contatto diretto con tali aspetti della Potenza Divina.

Concludiamo con una ulteriore citazione di Sri Aurobindo, sufficientemente lunga, tratta dal nono capitolo del già citato saggio “Il segreto dei Veda”, del quale consigliamo calorosamente la lettura:


«Il simbolismo del Veda si rivela con la massima chiarezza nella figura della dea Sarasvatī. […] Essa è apertamente e chiaramente la dea della Parola, la dea di una ispirazione divina. […] L’associazione di un fiume all’ispirazione poetica si produce anche nella mitologia greca; qui, tuttavia, le Muse non sono concepite come se fossero fiumi; esse sono solo in rapporto, in un modo non molto comprensibile, con un corso d’acqua terrestre particolare. Questo corso d’acqua è il fiume Ippocrene, la sorgente del cavallo, e il suo nome deriva da una leggenda che vuole sia stato lo zoccolo del cavallo divino Pegaso a farlo scaturire; infatti egli colpì la roccia con il suo zoccolo e le acque dell’ispirazione scaturirono nel punto dove la montagna era stata percossa. Questa leggenda era semplicemente una fiaba greca, oppure aveva un significato speciale? È evidente che se aveva un significato, doveva essere quello psicologico, dal momento che si riferisce, in tutta chiarezza, a un fenomeno psicologico: la nascita delle acque dell’ispirazione; deve essere stato un tentativo di presentare con immagini concrete certi fatti psicologici. Possiamo notare che la parola Pegaso, se la traslitteriamo nella fonetica ariana originale, diventa Pājasa ed è chiaramente in relazione col sanscrito pājas, che in origine significava la forza, il movimento, oppure, talvolta, camminare. Anche in greco la parola è connessa a pēgē, una corrente d’acqua. I termini di questa leggenda sono in costante associazione con l’immagine di un moto virulento dell’ispirazione. Se torniamo ai simboli vedici, notiamo che aśva, il cavallo, è un’immagine della grande forza dinamica della vita, dell’energia vitale e nervosa, sempre accoppiata a altre immagini che simboleggiano la coscienza. Adri, la montagna o la roccia, è un simbolo dell’esistenza ordinaria e in particolare della natura fisica ed è da questa montagna che vengono liberati gli armenti del sole, oppure è da questa roccia che scorrono le acque. Le correnti di madhu, il miele, il Soma, si dice anche che vengano spillate da questa montagna o da questa roccia. Il colpo di zoccolo del cavallo sulla roccia, che libera le acque dell’ispirazione, diventerebbe così una immagine psicologica molto chiara. E non c’è alcuna ragione, inoltre, di supporre che gli antichi greci e indiani fossero incapaci sia di una simile osservazione psicologica sia di rappresentarla nell’immaginario poetico e mistico che costituiva il corpo stesso degli antichi Misteri.

Potremmo in verità andare più lontano e chiederci se non vi fosse qualche connessione originaria fra l’eroe Bellerofonte, uccisore di Bellero, che cavalca il cavallo divino (Pegaso), e Indra Valahan, l’uccisore vedico di Vala, il nemico che trattiene per sé la luce. […] Sarasvatī non è solo collegata con altri fiumi ma anche con altre dee, che sono chiaramente simboli psicologici, e in particolare con Bhāratī e Iḷā. Nelle forme più tarde del culto puranico, Sarasvatī è la dea del linguaggio, del sapere e della poesia e Bhāratī è uno dei suoi nomi; ma nel Veda, Bhāratī e Sarasvatī sono due divinità differenti. Bhāratī è chiamata anche Mahī, l’Immensa, la Grande, la Vasta. Le tre, Iḷā, Mahī o Bhāratī e Sarasvatī sono riunite in una formula fissa […].

Mi pare impossibile vedere in queste espressioni altra cosa dall’indicazione di uno stato di coscienza illuminata, la cui natura è vasta o ampia, bṛhat, colma della verità d’essere, satyam, e della verità di conoscenza e di azione, ṛtam. Gli dèi hanno questa coscienza. Agni, per esempio, è detto ṛtacit, colui che ha la coscienza-di-Verità. Mahī è piena dei raggi di Sūrya, e porta in sé l’illuminazione. Inoltre ella è sūnṛtā, la Parola di una verità ricca di gioia, proprio come è detto di Sarasvatī, “colei che incita le beate verità”, codayitrī sūnṛtānām. Infine ella è virapśī, immensa, o prorompente nell’abbondanza, parola che ci ricorda come la verità sia anche immensità, ṛtam bṛhat. E in un altro inno (Ṛg Veda, I.XXII.10) è descritta come varūtrī dhiṣaṇā, potere-del-pensiero che largamente ricopre o abbraccia. Mahī, dunque, è la vastità luminosa della Verità; rappresenta l’Immensità, bṛhat, del sovracosciente in noi che contiene in sé la Verità, ṛtam. Ella è, di conseguenza, per il sacrificante, come un ramo ricolmo di frutti maturi. […] Iḷā è anch’essa la Parola della verità; il suo nome, a causa di una confusione posteriore, è stato identificato con l’idea di linguaggio. Come Sarasvatī che risveglia la coscienza verso i giusti pensieri o verso gli stati giusti della mente, cetantī sumatīnām, anche Iḷā viene al sacrificio risvegliando la coscienza al sapere, cetayantī. Ella è piena di energia, suvīrā, e reca la conoscenza. Anche lei è in rapporto con Sūrya, il Sole; per esempio, quando Agni, la Volontà, è invocato (Ṛgveda, V.IV.4) affinché operi con i raggi del Sole, Signore della vera Luce, essendo una unica mente con Iḷā, iḷayā sajoṣā yatamāno raśmibhiḥ. Ella è la madre dei Raggi, gli armenti del Sole. Il suo nome significa colei che cerca e raggiunge, e contiene la medesima associazione di idee presenti nelle parole ṛtam e ṛṣi. Iḷā può essere quindi la visione del veggente che raggiunge la verità.

Come Sarasvatī rappresenta l’ascolto-di-verità, śruti, che dona la parola ispirata, così Iḷā raffigura dṛṣṭi, la visione-di-verità. In tal caso, poiché śruti e dṛṣṭi sono i due poteri del ṛṣi, del kavi, del veggente della Verità, possiamo capire la stretta relazione fra Iḷā e Sarasvatī. Bhāratī o Mahī è l’immensità della coscienza-di-Verità che, sorgendo sulla mente limitata dell’uomo, porta con sé le due Potenze-sorelle. Possiamo anche capire come queste distinzioni raffinate e vive finirono in seguito per essere trascurate, perché la conoscenza vedica declinò e Bhāratī, Sarasvatī, Iḷā si fusero in una sola divinità.

Possiamo altresì notare, come viene detto, che queste tre dee portano alla nascita della Beatitudine, mayas, nell’uomo. Ho già insistito sulla relazione costante, come era concepita dai veggenti vedici, fra la Verità e la Beatitudine o Ānanda. È grazie all’aurora della coscienza vera o infinita nell’uomo che questi perviene, una volta uscito dal cattivo sogno di dolore e sofferenza e di separazione insiti nella creazione, alla Beatitudine, allo stato felice, variamente descritto nel Veda con le parole bhadram, mayas (amore e beatitudine), svasti (lo stato perfetto dell’esistenza, il giusto modo d’essere) e con altre, utilizzate in modo meno specifico, quali vāryam, rayiḥ, rāyaḥ. Per il ṛṣi vedico, la Verità è il passaggio e l’anticamera, la Beatitudine dell’esistenza divina è la meta, oppure, possiamo anche dire, la Verità è il fondamento, la Beatitudine il risultato supremo.

Questo è dunque il carattere di Sarasvatī in quanto principio psicologico, la sua funzione particolare e la sua relazione con le divinità a lei più strettamente vicine. Fino a quale punto tali cose possono gettare luce sulle sue relazioni, in quanto fiume vedico, con le acque che insieme a lei sono state liberate da Indra e cioè con le sue sei sorelle? Il numero sette gioca un ruolo estremamente importante nel sistema vedico, come nella maggior parte delle scuole di pensiero molto antiche. Lo vediamo ricorrere costantemente: le sette delizie, sapta ratnāni; le sette fiamme, lingue o raggi di Agni, sapta arcisāḥ, sapta jvālāḥ; le sette forme del principio-del-pensiero, sapta dhītayaḥ; i sette Raggi o vacche, forme della Vacca indistruttibile, Aditi, la Madre degli dèi, sapta gāvah; i sette fiumi, le sette madri o vacche nutrici, sapta mātaraḥ, sapta dhenavaḥ, termine applicato indifferentemente ai Raggi e ai Fiumi.»

…E, ovviamente, le sette Sorelle dell’ispirazione poetica, brillanti nei cieli della coscienza, pronte a riversare la loro illuminazione sull’essere umano ricettivo. E simboleggiate dalle sette Pleiadi del nostro firmamento materiale.




P.S.: Abbiamo ricevuto in proposito alcune precisazioni da parte del Dott. Kenan Digrazia, che arricchiscono ulteriormente l'articolo e che pertanto siamo lietissimi di inserire qui, in conclusione:

«Mi permetto di aggiungere una piccola sfumatura al vostro articolo, da voi non ben chiarita alla fine, in merito alla pleiade perduta, di cui conoscevo già le vicissitudini in archeoastronomia. L’eclisse della settima pleiade è un fenomeno tramandato più o meno universalmente e i miti di successivo sviluppo parlano sempre di un fenomeno improvviso, non di un graduale smarrimento, come ci si aspetterebbe da un’interpretazione naturalistica (avvicinamento di due stelle in una). Il rapporto va capovolto: il fenomeno astronomico semmai è la conferma di ciò che già quegli uomini avevano intuito sul piano metafisico. Questa rapida fatuità, se così si può dire, del fenomeno pleiade scomparsa è da attribuirsi, a mio modesto parere, alla sparizione del Sole nella coscienza, come testimoniano vari inni rgvedici, evento ben sottolineato da Iorco nella sua voluminosa traduzione. Vi è stato un fatto che in modi diversi presenta lo stesso in variante: “l’evento caduta”. Chiamiamolo “cacciata dal paradiso”, “peccato”, infrazione, degenerazione del Kali Yuga, ecc... ma la sostanza è la stessa: vi è un momento in cui improvvisamente una sorella non è più disponibile. E quella sorella è proprio la diretta presenza del settimo piano dell’Essere: la pura Essenza Divina. Si è improvvisamente passati da una situazione in cui il perno, il “sostegno della ruota a sei raggi” (per usare l’immagine di rishi Dirghatamas) era visibile e conversava con gli uomini a una in cui diviene invisibile, nascosto nella grotta del cuore (come diranno le Upanishad) e quindi il dialogo diretto con Dio, la comunanza con Brahman, viene preclusa all’uomo a causa della sua infrazione ontologica del Rta. E’ proprio questa l’ispirazione mancante, la settima sorella che si occulta, poi associata al fenomeno astronomico (che, ripeto è diretta conseguenza successiva di quello metafisico già intuito da quegli uomini). Oggi l’uomo trova contatto solo con i tre cieli e le tre terre (sei sorelle, sei fardelli altresì detti da Vishwamitra). Ma giunge la soluzione: lo yajna ripristina la struttura ontologica, riformula il Rta, permettendo all’uomo il viaggio verso Dio, verso l’eliminazione finale del male e il sorgere del Sole definitivo con Ushas. Ecco dunque il periodo in cui la settima sorella tornerà e sarà ripristinata ogni cosa alla sua perfezione originale. I rishi dei Veda avevano intuito ciò. Anche nella Bibbia il concetto è chiaro: il Sacrificio di Cristo viene interiorizzato dal sincero credente (la mistica paolina è istruttiva in questo), e ciò porta al ripristino del dialogo e dell’amicizia con Dio.»

Dott. Kenan Digrazia
Università degli Studi di Catania
Dipartimento di Fisica ed Astronomia "Ettore Majorana"



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