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LINGUA VEDICA E LINGUA SANSCRITA


Il Ṛgveda è scritto in “sanscrito vedico” (che alcuni — noi compresi — preferiscono chiamare semplicemente “vedico”, e ne affronteremo presto le motivazioni). Non è stato ancora accertato il periodo in cui tale lingua nacque, ma di certo i suoi primordi (che, per comodità, possiamo identificare con l’appellativo di “protovedico”) devono essere incredibilmente arcaici; sappiamo invece con certezza che l’uso del vedico perdurò fino al V secolo a.C. circa, quando il tardo vedico diede vita a una lingua per certi versi nuova, maggiormente in sintonia con il nascente sviluppo intellettuale dell’umanità, sulla base del paleosanscrito (di cui la letteratura allegata alla fine dei quattro Veda, per ciò detta Vedānta, costituisce una magistrale testimonianza), fino al raggiungimento della sua piena maturità nel cosiddetto “sanscrito classico”, che portò alla creazione di capolavori di poesia universale come il Mahābhārata, il Rāmāyaṇa, la poesia di Kālidāsa e molto altro ancora. Al principio di questo periodo, Pāṇini codificò la sua celeberrima e magistrale grammatica sanscrita, conosciuta con il nome di Aṣṭādhyāyī.

Sebbene il sanscrito vedico e il sanscrito classico siano apparentemente simili, differiscono sostanzialmente in numerosi aspetti concernenti la fonologia, il vocabolario, la grammatica e la sintassi. Generalmente, chi ha una discreta conoscenza del sanscrito classico, leggendo il vedico (in particolare il Ṛgveda, che è il più antico dei quattro Veda e la più vetusta testimonianza di tale lingua), è assolutamente incapace di coglierne le molteplici sfumature e il vero senso, il che può condurre a due possibili esiti: se si tratta di un lettore sincero e profondo, ammetterà di non essere in grado di compulsare il testo in modo compiuto e opportuno; se invece è un lettore frettoloso e superficiale, fraintenderà la maggior parte del suo linguaggio poetico, altamente simbolico e mistico, traducendolo con la più maldestra avventatezza pedestre, dando vita a una interpretazione fuorviante. Uno studioso serio come Arthur Macdonell, per esempio, riconosce che la lingua utilizzata nel Ṛgveda è «diventata ormai del tutto incomprensibile» (Sanskrit Grammar). Perfino il summenzionato Pāṇini, a detta dell’esimio sanscritista moderno, già non riusciva a penetrare con compiutezza le regole grammaticali del vedico: «La sua esposizione della lingua vedica, che comprende centinaia di regole, lungi dal riuscire completa, presenta svariate lacune, dato che mancano sovente argomenti importanti, mentre vengono prese in considerazione una serie di inezie. In questa parte della sua opera, Pāṇini dimostra una decisa incapacità di dominare l’argomento, attribuendo ai Veda le più sfrenate licenze grammaticali, soprattutto nello scambio o nell’eliminazione delle desinenze» (ibidem). Per esempio, Pāṇini basa il proprio trattato sul principio fondamentale della scomposizione di ogni parola, al fine di individuarne la radice originaria. Tuttavia, quando alcune radici verbali vengono impiegate in senso nominale, l’antico grammatico suppone un suffisso immaginario. La qual cosa suscita notevoli perplessità (per fare ricorso a un eufemismo!), al punto da ritenerlo uno dei principali errori da lui compiuti.

Gārgya, un altro grammatico che storicamente precedette Pāṇini e che, per ciò, fu con ogni probabilità maggiormente portato ad approcciare la lingua rigvedica con la necessaria plasticità, criticava le forzate etimologie e riteneva che se un preciso vocabolo deriva da una determinata radice, esso assume un senso allargato, per nulla limitato a un significato univoco. Infatti, ormai sappiamo bene che è proprio lo sviluppo dell’intelletto raziocinante a voler fissare (per ovvie e ben comprensibili motivazioni) il significato di ciascun vocabolo e a conferire loro un solo significato, allo scopo di creare un linguaggio intellettualmente preciso e socialmente rassicurante. L’età della ragione costringe le parole nella gabbia soffocante del significato univoco, al fine di formalizzare la realtà, sottraendosi al mondo assai più flessibile e incerto della vita. Oggi, giunti al punto estremo della parabola dello sviluppo intellettuale, solo tre categorie di esseri umani riescono a sfuggire a una simile tendenza: i bambini, i folli e i poeti.

Se, per esempio, ci confrontiamo con il termine vedico aśva (tanto per citarne uno abbondantemente ricorrente nell’innodia rigvedica), constatiamo che esso possiede una molteplicità di valori, a partire dal suo suono-radice aś, “muoversi” (con un certo dinamismo implicito). Nel sanscrito classico, tale parola assumerà il significato fisso di “cavallo”. Ebbene, secondo Gārgya, invece, ogni cosa che si muove, che viaggia, che procede verso una meta dovrebbe essere chiamata aśva. Non molto differentemente, nel Ṛgveda, aśva è collegato all’idea di movimento e, in particolare, all’attività cinetica dell’energia vitale. Per i veggenti rigvedici, in ogni essere vivente esiste un “cocchio” da legare a cavalli ben aggiogati, al fine di condurre il movimento della vita sul percorso più agevole e opportuno, in vista della meta che essi intendevano raggiungere. Un altro esempio, ancor più significativo, può essere fatto con la parola vedica go, che nel sanscrito classico assumerà il significato di “vacca”: ma la radice etimologica veicola il significato di “luce”, pertanto i poeti rigvedici, ogni qualvolta menzionano la vacca, intendono riferirsi alla luce — e, infatti, la rigvedica dea Aurora (figlia del dio Sole) al suo primo apparire sulla terra, porta una molteplicità di vacche-di-luce (non molto diversamente, Omero parla delle “vacche del sole”). Analogamente, il latte della vacca, è la forma che l’irradiazione luminosa assume quando si riversa nella coscienza dell’umano aspirante; e il burro vaccino rappresenta il condensarsi ulteriore di quella medesima luminosità spirituale.

Pāṇini, vissuto in un’epoca più mentalizzata rispetto a quella di Gārgya, accoglierà solo in parte i suoi suggerimenti, dato che il suo scopo era per l’appunto quello di codificare una grammatica che potesse rendere la lingua sanscrita matura per l’imminente sviluppo dell’intelletto raziocinante. Mentre, di converso, il Ṛgveda venne composto in un’età di gran lunga precedente l’età della ragione, e i suoi autori (poeti di raffinatissima levatura, oltre che profondissimi veggenti) non erano per nulla costretti nelle soffocanti maglie del pensiero analitico.

Tornando alla linguistica di base, si suppone con ogni probabilità che il vedico sia alquanto simile all’antica lingua indoeuropea originaria: il cosiddetto protoindoeuropeo (siglato PIE), purtroppo inesorabilmente perduto, non essendo sopravvissuto alcun testo (supposto che ne sia mai stato scritto qualcuno). Cosicché il vedico risulta essere la più antica lingua attestata delle lingue indoiraniche (o indoarie) della famiglia delle lingue indoeuropee.

Volendo essere più precisi, possiamo arrivare a identificare sette tappe nella storia della lingua vedico-sanscrita:

I) protovedico (privo di testimonianze scritte);

II) rigvedico (datazione precisa ancora sconosciuta);

III) lingua samavedica, yajurvedica e atharvavedica (XII secolo a.C.);

IV) prosa contenuta nelle Saṃhitā (circa 1100-800 a.C.);

V) prosa contenuta nei Brāhmaṇa (circa 900-600 a.C.);

VI) lingua dei Sūtra (500 a.C.);

VII) sanscrito classico (dalle maggiori epopee fino alla prosa più recente).

Il sanscrito classico è una lingua grammaticalmente limata, “perfetta”, vale a dire, anzitutto, “raffinata” e “ripulita” (saṃskṛtam) da certi stilemi vedici che, come accennato, a una mentalità decisamente più moderna (vale a dire, più intellettuale) rispetto a quella rigvedica, dovettero apparire arcaismi leziosi; il sanscrito, inoltre, si affrancò progressivamente da tutti quegli elementi linguistici considerati incontrollabili, ovvero le innumerevoli particelle e la sintassi più libera (in sanscrito troviamo una sintassi molto “grammaticale”, cioè estremamente semplificata e imbrigliata entro regole precise), che invece caratterizzano il vedico. Ciò causò un notevole arricchimento in una precisa direzione e un fatale impoverimento in tutt’altra direzione. L’arricchimento andò a tutto vantaggio della precisione intellettuale: fissate regole rigide, il lessico sanscrito divenne progressivamente compiuto, teso a permettere una grande precisione nelle varie sfere dello scibile umano esplorato dagli antichi: dal mistico allo scientifico. L’impoverimento, invece, fu a discapito del simbolismo poetico, dato che un termine vedico poteva presupporre anche tre o quattro significati diversi che, sovrapposti in una sorta di effetto cumulativo, rendono la poesia rigvedica di sublime fattura: pur nell’apparente semplicità della sua tessitura, vi si possono individuare diversi strati di “interpretazione”, tutti ugualmente veri e coesistenti. Da qui la magia della poetica del Ṛgveda, come si può evincere dal volume da noi pubblicato, contenente traduzione italiana e testo originale a fronte, oltre a un corredo di note tese a illustrare, quando necessario, tali finezze letterarie (metafore, doppi e tripli sensi, ecc.) di ineguagliabile fascino che, se non vengono colte in modo adeguato, rendono la sua già criptica poesia assolutamente incomprensibile (questo fatto spinse drammaticamente i primi linguisti e glottologi sanscriti in acrobatici e improbabili contorsionismi, in modo da spogliare il linguaggio rigvedico del suo vero senso e farlo apparire come un semplice — e banalissimo — manuale ritualistico e naturalista).

Per fare un esempio concreto, possiamo prendere il termine pāṇi; nella lingua vedica, esso viene utilizzato per indicare qualunque organo di azione, come la mano, il piede o altro ancora. Nelle lingue post-vediche, tale vocabolo ha preso a indicare un solo organo: nel sanscrito classico, la mano; in latino, il pene (pēnis); in greco, il piede (poús); e così via.

Occorre comunque tenere presente che, come già adombrato, tra il vedico e lo sviluppo del sanscrito classico esiste una fase pre-classica che, in qualche misura, esaminata con il senno di poi, ha esercitato funzioni di ponte tra le due lingue; all’apogeo di questa lunga fase di transizione sono nate le due grandi epopee indiane: il Rāmāyaṇa di Vālmīki e il Mahābhārata di Vyāsa. E ci sarebbe, ancor prima, l’immensa letteratura puranica, sebbene i Purāṇa come noi oggi li conosciamo siano perlopiù frutto di un cospicuo lavoro di rimaneggiamento e di aggiustamento che, per quanto interessante da un punto di vista letterario, storico, antropologico, ha alterato il linguaggio (e, in molti casi, il significato) originale.

In merito al tipo di scrittura utilizzato, a un certo punto si è affermato il cosiddetto alfabeto devanāgarī, sebbene diverse altre forme ancora esistano. Piuttosto diffusa, per esempio, è la tendenza a utilizzare le scritture dei vari prakrta (vernacoli) moderni, in particolare il kashmiriano Śāradā, il bengalese Bāṅglā, il Gujarātī, il Grantha.

Dal punto di vista della struttura grammaticale, vedico e sanscrito sono sostanzialmente simili alle altre lingue indoeuropee dell’antichità, come il greco, il latino, l’iranico e altre ancora, tutte imparentate fra loro. Sono le cosiddette lingue flessive. Per esempio, il sistema nominale (nomi, pronomi) e gli aggettivi hanno tre generi (maschile, femminile, neutro), tre numeri (singolare, duale, plurale), sette casi (nominativo, accusativo, strumentale, dativo, ablativo, genitivo, locativo), in aggiunta a un vocativo.

Per offrire qualche indicazione concreta sulle differenze esistenti tra vedico e sanscrito classico, si può far notare come, rispetto a quest’ultimo, il vedico possieda un sistema verbale più complesso (il sanscrito si premurò di fare il più possibile a meno del verbo coniugato), i tempi rispettano le distinzioni temporali (nel sanscrito classico tutti i tempi passati sono in effetti semplici preteriti senza distinzioni reali fra loro), oltre a contemplare un vasto utilizzo di particelle e avverbi (per esempio i prefissi verbali del sanscrito, in vedico sono staccati dal tema verbale, e “vagano” per la frase). Oltre, naturalmente, a quel polisemantismo lessicale cui abbiamo già sufficientemente attestato.

In relazione al sanscrito classico, il vedico contempla l’utilizzo del congiuntivo, che è invece assente nella grammatica di Pāṇini. I tempi vengono coniugati mediante il congiuntivo e l’ottativo, a differenza del sanscrito classico, privo di congiuntivo e avente un solo presente ottativo. Tuttavia, le originali forme in prima persona del congiuntivo sono state impiegate per completare l’imperativo del sanscrito classico. I tre tempi conosciuti con il nome di imperfetto, perfetto e aoristo, si trovano semanticamente distinti nella lingua rigvedica. Oltre all’esistenza del cosiddetto ingiuntivo. L’uso del congiuntivo vedico è caduto in disuso nel sanscrito classico. Inoltre, non vi era alcuna regola fissa circa l’uso di varî tempi. Nel Ṛgveda sono presenti dodici diversi modi di formare l’infinito, di cui il sanscrito classico ha mantenuto una sola forma.

I suoni dell’alfabeto vedico sono sostanzialmente gli stessi presenti nel sanscrito classico, con la sola eccezione di due lettere aggiuntive presenti nel vedico: le cerebrali intervocaliche ḷ e ḷh.

In merito alla morfologia, il vedico conta tre generi grammaticali (maschile, femminile, neutro), tre numeri (singolare, duale, plurale) e otto casi (nominativo, vocativo, accusativo, strumentale, dativo, ablativo, genitivo, locativo). I verbi sono coniugabili al presente, (presente, imperfetto, imperativo, ottativo), al futuro (futuro, condizionale), oltre al perfetto e all’aoristo.

Il sanscrito, nella sua forma classica, si cristallizza in particolare nell’area settentrionale dell’India a cavallo dell’era cristiana, per poi imporsi come lingua di cultura panindiana per tutto il primo millennio e per buona parte del secondo (quando si diffonde anche in Vietnam e in Indonesia).

Per quanto riguarda la stretta parentela linguistica tra vedico, sanscrito e avestico, i linguisti per forza di cose li riuniscono — all’interno delle lingue indoeuropee — in un unico ceppo indo-iranico, caratterizzato da profonde somiglianze (in particolare tra vedico e avestico). Sostenere (come certi studiosi hanno fatto) che il vedico derivi dal persiano, è ormai universalmente riconosciuto come un clamoroso errore (uno dei tanti compiuti dagli orientalisti, il cui peggior crimine è quello di aver creato una netta divisione tra oriente e occidente all’interno dell’Eurasia, spezzando artificiosamente in due la grande famiglia indoeuropea che, invece, andrebbe tenuta unita, pur nella imprescindibile e fondamentale valorizzazione di tutte le sue diversità e specializzazioni culturali; in pratica, ancora oggi, chi si dedica allo studio di tradizioni legate alla parte orientale dell’Eurasia viene considerato come un più o meno stravagante appassionato di esotismo, attratto da una cultura “troppo distante dalla nostra” (al principio, termini come “indomania” e “indofobia” furono espressamente coniati, per poi essere caduti provvidenzialmente nell’oblio), mentre in realtà oggi cominciamo a prendere coscienza di quanto approfondire le radici vediche della tradizione significhi affondare con maggiore assennatezza nelle radici del grande albero euroasiatico al quale apparteniamo, alla ricerca della sua più essenziale linfa vitale).

In conclusione, portiamo l’attenzione sull’importanza (e i limiti) della linguistica nello studio del Ṛgveda, avvalendoci di una citazione — come sempre illuminante — di Sri Aurobindo: «È facile abusare della filologia. Personalmente, sono persuaso che non vi sia scienza della linguistica che possa risultare effettiva e valida finché si limita alla scoperta di una o due norme statutarie di modificazione sonora e, per il resto, dipenda dall’immaginazione e dalla più fantasiosa congettura — per esempio, giungendo a identificare l’ethos con swadha, o facendo derivare uloka da urvaloka, o pracetasa da praci e, al tempo stesso, ignorando le numerose licenze, sicuramente accertate, generatesi dalla detrazione pracrita tra le lingue europee e sanscrite, oppure ancora considerando una serie di identità di parole sufficienti a giustificare l’inclusione in un unico gruppo di lingue. Con “linguistica scientifica”, intendo una scienza in grado di tracciare le origini, la crescita e la struttura del linguaggio sanscrito, rintracciare le sue forme primaria, secondaria e terziaria e le leggi mediante le quali si svilupparono l’una dall’altra, tracciando in modo intelligibile la derivazione di ogni significato di una determinata parola sanscrita dal suo significato-radice originario, presentando tutte le somiglianza e le identità di senso, svelando la motivazione delle divergenze inaspettate, mostrando le deviazioni che separano greco e latino dal dialetto indiano, scoprendo e definendo il collegamento di queste tre lingue con il linguaggio dravida. Soltanto un tale sistema di filologia comparata merita di essere ammesso nel novero di un campo scientifico, a fianco delle scienze fisiche, e di poter pretendere di discettare con autorità relativamente al significato delle parole dubbie nel vocabolario vedico. Lo sviluppo di una simile scienza dovrà giocoforza costituire il risultato di un lavoro gigantesco, anche in termini di tempo.

Ma persino una tale scienza, una volta completata, non potrà — a causa della esigua dimensione dei documenti in nostro possesso — costituire di per sé una guida perfetta. Si rivelerebbe infatti necessario scoprire, correggere e prendere sempre in considerazione i fatti acclarati, le esperienze e l’atmosfera del pensiero dei ṛṣi vedici; perché sono esattamente queste cose a dare colore alle parole degli uomini e a determinare il loro utilizzo.» (Vedic and Philological Studies).

In pratica, ciò significa che la linguistica deve anzitutto acquisire solidità nella fondazione e nella struttura; in secondo luogo, e parallelamente, occorre possedere la capacità di penetrazione interiore che possa permettere di comprendere la poesia rigvedica dal di dentro, per immedesimazione con le esperienze di cui i mantra rigvedici intendono essere l’espressione verbale-sonora.

In un certo senso, la poesia rigvedica è, nel suo simbolismo per nulla astruso, di una disarmante semplicità, pur veicolando esperienze della più sottile portata spirituale. È la mente razionale a complicare tutto. «In tale equilibrio e simmetria, semplici e indefetti, un cospicuo numero di inni vedici rappresenta esattamente, in poesia, il medesimo spirito e stile ravvisabili nel tempio greco o nel disegno architettonico e pittorico greco. Nessuno può trascurare di rilevare e di dare pieno valore al suddetto spirito, se intende cogliere adeguatamente e pienamente, con precisione, il senso dei testi vedici.» (ibidem, pag. 74).



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