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LA CIVILTÀ “INDO-SARASVATI” È COLLEGATA AL ṚGVEDA?

La civiltà Indo-Sarasvati fu assai antica (tra le più vetuste del mondo), estesa geograficamente soprattutto lungo i fiumi Sarasvati (ormai prosciugato da parecchio tempo) e Indo, nel subcontinente indiano. Il primo sito di tale civiltà fu scoperto nel 1857, ma solo negli anni Venti del Novecento iniziarono gli scavi archeologici, tuttora in corso.

Molti gli interrogativi non ancora risolti… Quale popolazione diede vita a tale civiltà? Perché si concluse? Esistono correlazioni con gli attuali abitanti dell’India? Che tipo di linguaggio parlavano? Quali sono gli eventuali rapporti tra il linguaggio da essi utilizzato e le lingue dell’India (e del resto dell’Eurasia)? E, ancora, la domanda che noi abbiamo posto come titolo di questo articolo: tale civiltà era legata alla cultura vedica?

Una delle poche cose certe che i ricercatori hanno potuto affermare, è che la civiltà in questione conobbe una estensione geografica (attuale Pakistan e India occidentale) maggiore rispetto a quelle della Mesopotamia e dell’Egitto.

La sua scrittura, come si diceva, non è ancora stata decifrata (a malgrado dei diversi tentativi effettuati dai ricercatori, alcuni dei quali propongono ipotesi talvolta anche molto interessanti, ma nessuna al momento ritenuta definitiva e probante fuori da ogni dubbio, non essendo ancora state individuate le leggi grammaticali, a dispetto del fatto che siano stati decodificati un buon numero di vocaboli, di chiara impronta vedica) e, per conseguenza, si ignorano le caratteristiche fondamentali del linguaggio.

Nel diciannovesimo secolo, a seguito degli studi effettuati dal linguista William Jones, il quale fu uno dei primi a rintracciare forti affinità tra le lingue sanscrita, greca, latina e persiana, si iniziò a postulare l’esistenza di un’unica famiglia linguistica, il cosiddetto indoeuropeo e, a mano a mano che le ricerche si fecero più sistematiche, si prese a cercare la lingua primeva, da cui l’intera famiglia linguistica deriverebbe, battezzandola con il nome di “proto-indoeuropeo” (o, in formula abbreviata, PIE). Diciamo subito che, di tutte le lingue indoeuropee oggi individuate (albero copiosissimo, composto da una quarantina di lingue parlate da circa metà della popolazione mondiale, diffusesi nel ramo indo-iranico, in quello dei vari dialetti del greco, nelle lingue celtiche, germaniche, italiche, anatoliche, baltico-slave e altre ancora) la più antica è senza alcun dubbio il vedico — vale a dire, la lingua mediante la quale furono trascritti i Veda (e, in particolare, il più antico e più rilevante dei quattro: il Ṛgveda). Da ciò si deduce che il vedico è senza dubbio la forma linguistica più vicina al PIE originario. Già solo questo fatto rende importante per tutti noi conoscere il Ṛgveda.

Gli studiosi sono alla ricerca di dimostrazioni definitive e il più possibile particolareggiate attestanti lo stretto legame di parentela tra la forma di scrittura rinvenuta nei vari siti della civiltà Indo-Sarasvati e il vedico (e, conseguentemente, con il suo successore, il sanscrito classico). Nonostante diversi tentativi, non è ancora stato possibile decifrare con assoluta certezza la forma di scrittura utilizzata da questa raffinata civiltà. I segni finora individuati sono circa 400 (alcuni ritengono che parte di essi siano derivazioni con leggere modifiche o combinazioni di 200 caratteri principali).

Le radici della civiltà Indo-Sarasvati risalgono al Neolitico. La fase più matura pare sia fiorita intorno a 4.700 anni fa, dopo un più o meno lungo esordio. Verso il 1.900 a.C., inspiegabilmente, le città cominciarono a essere abbandonate e gli abitanti rimasti sembrano avere avuto difficoltà a procurarsi cibo a sufficienza. Intorno al 1750 a.C., la maggior parte delle città erano state del tutto abbandonate. Le popolazioni tuttavia non sparirono e, in quegli stessi luoghi, si svilupparono una serie di specificità regionali che mostrano il prolungarsi, in gradi diversi, della medesima cultura. Una parte della popolazione migrò probabilmente verso est e verso le pianure del Gange. Tuttavia, nei secoli successivi si perse la memoria della civiltà Indo-Sarasvati, anche a causa della mancanza di imponenti monumenti in pietra, le cui vestigia potessero trasmetterne il ricordo. Una delle particolarità riscontrate nei siti coinvolti, risiede nel fatto che doveva regnare una sorta di parità tra le eventuali classi sociali, visto che non sono state rinvenute costruzioni di ragguardevole dimensione (a differenza della cultura egiziana, con le sue imponenti piramidi e i grandi templi); al contrario, in tutte le abitazioni trovate è stata riscontrata sostanzialmente la medesima cura nell’edificarle e nel collegarle a un impianto idrico per le acque di carico e di scarico.

Tra le varie ipotesi formulate sulla rapida fine di tale civiltà, particolarmente accreditata è al momento quella che ne imputerebbe la causa principale a un radicale cambiamento climatico: alla metà del III millennio sappiamo che l’area Indo-Sarasvati era una regione verdeggiante, umida e ricca di foreste e di animali selvatici; mentre intorno al 1800 a.C. il clima si modificò, diventando più freddo e più secco. Il fattore principale fu la probabile sparizione della rete idrografica del suddetto fiume Sarasvati. In effetti, le moderne fotografie satellitari (scattate a partire dall’ultimo decennio del Novecento) permettono di identificare il corso di un fiume oggi scomparso nella regione, e alcuni indizi lasciano pensare che una serie di eventi sismici di notevole entità abbiano modificato a tal punto la geografia dell’area da spingere i suoi abitanti a trasferirsi altrove. Se un grande fiume si fosse effettivamente prosciugato al momento in cui tale civiltà era al suo apogeo, gli effetti sarebbero stati devastanti, producendo notevoli movimenti migratori e la dissoluzione della “massa critica” di popolazione indispensabile al mantenimento di questa civiltà ne avrebbe determinato la fine o l’assorbimento da parte di altre popolazioni stanziate in aree attigue che dovette accogliere i “rifugiati”.

Come si diceva, le relazioni tra la civiltà Indo-Sarasvati e la prima cultura sanscrita (ovvero, la vedica) non sono ancora del tutto chiare, ma esistono già sufficienti prove, sebbene il puzzle abbia ancora molte tessere mancanti. I più antichi testi vedici, peraltro, menzionano il fiume Sarasvati e descrivono una società prossima all’utopia che viveva sulle sue rive. Oltre, naturalmente, alle statuine ritrovate, in cui compaiono uomini stilizzati in posture yogiche e altri elementi fortemente connessi ai Veda.

Quel che si può constatare dagli scavi archeologici, è che gli edifici principali erano costruiti in mattoni, cotti o crudi (seccati al sole), di una forma marcatamente standardizzata (il che fa fortemente supporre a un tessuto sociale mirabilmente privo della dicotomia ‘ricchipoveri’, come si è già accennato). Le case dovevano essere a due piani e comprendevano un vano per le abluzioni. L’acqua veniva ricavata dai pozzi esistenti nelle abitazioni, ma nelle città maggiori esisteva una rete per lo scarico delle acque scure, con condotti coperti che correvano lungo le vie principali, a cui si collegavano le stanze da bagno. Al contrario delle contemporanee civiltà della Mesopotamia e dell'Egitto, non sembrano esistere indizi di un potere centrale di tipo regale o sacerdotale e sembrano mancare tracce di eserciti o di opere difensive: i muri perimetrali presenti in alcuni casi, e la sopraelevazione della cosiddetta cittadella, sembrano dovuti alla necessità di proteggersi dalle alluvioni dei fiumi piuttosto che da nemici esterni. Molti studiosi sono sbalorditi dal clima pacifico che doveva regnare in tutta quanta l’area, messo in evidenza dagli scavi stessi.

Alla luce della dispersione degli oggetti ivi fabbricati, la rete commerciale doveva includere una zona molto vasta, dall'odierno Afghanistan, al nord e al centro dell’India, fino alle regioni costiere della Persia, della Penisola Arabica e della Mesopotamia. I beni esportati includono perline e ornamenti, pesi, grandi giare e, probabilmente, anche cotone, legname, grano e bestiame. Materiali provenienti da regioni distanti erano utilizzati per la realizzazione di sigilli, perline e altri oggetti.

Un sistema decimale di pesi e di misure era utilizzato in tutta l’area, a testimonianza di una buona organizzazione dei commerci. Le misure di calcolo erano piuttosto precise: la più piccola di lunghezza (misurabile su una scala in avorio) è di 1,704 mm, mentre il peso più piccolo ritrovato corrisponde a 0,871 grammi.

Una forma di organizzazione economica sembra anche testimoniata dalla presenza di sigilli, con rappresentazioni di animali e di divinità (molto presumibilmente vediche) e iscrizioni. Alcuni erano utilizzati per imprimere il sigillo sull’argilla, ma dovevano avere probabilmente anche altri scopi.

In base alla grande quantità di figurine rappresentanti la fertilità femminile che tale civiltà ci ha lasciato, la Dea Madre pare avesse un ruolo centrale. E anche questo elemento è fortemente presente nel Ṛgveda, ove si ravvisa un sostanziale atteggiamento gilanico nel culto degli dèi e nell’organizzazione sociale. Oltre al fatto che la dea Aditi riveste, per i vati rigvedici, un ruolo di primaria importanza, essendo indicata come la Coscienza-Forza originaria da cui tutti gli dèi (e l’intera manifestazione cosmica) sarebbero scaturiti.

In merito al probabile rapporto tra la popolazione della civiltà Indo-Sarasvati e le moderne popolazioni dell’India, l’unica cosa che si può certamente constatare (dopo quasi due secoli di accesi dibattiti, non privi di ipotesi faziose formulate da studiosi europei, motivate da intenti biecamente colonialistici, quando non addirittura razzisti) è che non esiste alcuna evidenza dell’esistenza di significative differenze tra le varie etnie attualmente presenti in India: derivano tutte da un ceppo comune, al cui interno sussistono variazioni di scarsa rilevanza. Il che mette in forte dubbio la stessa divisione — considerata sempre più artificiosa — tra le etnie (e le rispettive forme di linguaggio) ariane e dravida. Da più parti è stato suggerito che, in un momento protostorico non ancora precisato, sia avvenuta una separazione tra le lingue ariane e dravida all’interno della comune radice indoeuropea. Sfatata definitivamente (a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso) anche la teoria della cosiddetta “invasione ariana in India”, mediante la quale gli studiosi europei volevano a tutti i costi provare che alcune popolazioni europee (caucasiche) avessero invaso l’India verso il 1.500 a.C. e dato inizio alla cultura sanscrita, costringendo le popolazioni dravida a fuggire nel Sud dell’immenso subcontinente. Gli scavi (e la registrazione dell’attività sismica nella regione himalayana effettuata a partire dagli anni Novanta del XX secolo) dimostrano che non ci fu alcuna invasione, mentre gli unici segnali di una possibile migrazione, sono da rintracciarsi in direzione del bacino gangetico, proprio per permettere alle popolazioni dell’Indo-Sarasvati di sfuggire al prosciugamento del fiume Sarasvati e, conseguentemente, di cercare aree abitabili e floride. Ulteriori migrazioni sarebbero state pure individuate, poco dopo, dall’India verso l’Asia centrale, l’Asia occidentale e l’Europa, il che spiegherebbe la diffusione della famiglia linguistica indoeuropea nelle suddette aree geografiche; ma quest’ultimo punto è ancora soggetto a cautela, non trovando unanimi tutti gli studiosi, per mancanza di prove conclusive e indubitabili. Non è nemmeno da escludere l’ipotesi (avanzata a partire dal XIX sec.) di una migrazione artica, in tempi lontanissimi, quando la regione dell’Artide non era ancora ghiacciata e godeva anzi di un clima mite. Alcuni passaggi contenuti nel Ṛgveda stesso (che talvolta abbiamo messo opportunamente in evidenza nella traduzione integrale da noi pubblicata, ricca di note a margine), sembrerebbero suffragare una simile eventualità.

Sta di fatto che la continua menzione del fiume Sarasvati (nel testo del Ṛgveda), e le fotografie satellitari che ne hanno infine provato l’esistenza, lasciano supporre che la cultura vedica abbia potuto fiorire proprio nell’area della civiltà Indo-Sarasvati.

Peraltro, recenti scoperte hanno imposto di retrodatare la stessa composizione del Ṛgveda; benché non sia possibile stabilire una datazione certa (anche a causa del fatto che, per lungo tempo, gli inni rigvedici pare vennero affidati unicamente alla mnemonica, tramandati a memoria di padre in figlio).

Attualmente, gli studiosi sono particolarmente interessati al vaglio di tre elementi da rintracciare negli scavi e che nel Ṛgveda occupano un posto di assoluto rilievo: gli altari al dio-fuoco, i cavalli e i carri. In alcuni siti (primi fra tutti Lothal e Kalibangan) è stata attestata la presenza di altari rituali in onore al dio del fuoco (il rigvedico Agni), sebbene tale evidenza sia ancora in esame, in modo da arrivare a comprenderne l’effettiva entità.

Inoltre, il ventunesimo secolo ha visto fiorire l’impiego di studi genetici in affiancamento alle tradizionali ricerche archeologiche. Ciò sta imponendo di rivedere sensibilmente la mappa delle migrazioni degli indoeuropei nel corso della storia. L’esame comparato dei resti degli scheletri ritrovati nell’area Indo-Sarasvati ha condotto gli scienziati a riconoscere che le caratteristiche genetiche e somatiche riscontrate nelle genti appartenenti a tale civiltà, siano sostanzialmente identiche a quelle presenti negli attuali abitanti dell’India. Nessuna significativa modifica genetica è stata ravvisata nelle popolazioni dell’Asia meridionale nel corso degli ultimi cinquantamila anni. Il che dovrebbe porre definitivamente fine alla famigerata teoria dell’invasione ariana in India, cui abbiamo fatto menzione. Oggi, semmai, si discute su una possibile “teoria dell’immigrazione ariana”: in pratica, si ipotizza che si siano verificati ampi flussi migratori di popoli indoeuropei all’interno dell’India, nel periodo delle più rilevanti attività tettoniche succedutesi nell’area Indo-Sarasvati, che avrebbe prodotto la fioritura della cultura vedica e una migrazione verso sud e verso est della sua popolazione.

Le ricerche, insomma, sono in pieno corso e hanno iniziato soltanto da qualche decennio a produrre risultati provvisti di una reale base scientifica (uno degli assunti più importanti che attestano la scientificità di una ipotesi, è l’assenza di elementi che possano palesemente contraddirla).

Ciò che sembra maggiormente confondere e affascinare gli studiosi, al momento attuale, riguarda il linguaggio della civiltà Indo-Sarasvati. Tutte le ipotesi (siano esse congetturali o frutto di studi fondati su una sufficiente solidità metodologica) e le teorie finora proposte (davvero parecchie) possono essere ricondotte a tre posizioni principali: quella supportata dalla tradizione, che afferma l’esistenza di una origine unica delle lingue arya e dravida, tendente a riconoscere la lingua parlata nella civiltà Indo-Sarasvati come di derivazione dravida; quella “indocentrica”, che vede nel vedico la scaturigine di tutte le lingue indoeuropee (compresa quindi quella dell’Indo-Sarasvati, che qualcuno ipotizza possa costituire una sorta di proto-vedico); e una terza posizione composta da quanti non sono inclini a riconoscere una vera e propria lingua nelle tavolette finora rinvenute nell’area in questione. Quello che invece è ormai fuori di ogni dubbio, e che vede unanimi tutti gli studiosi in materia, è il riconoscimento della lingua vedica come autoctona, originata in India dalle popolazioni locali, per nulla influenzata o importata da supposti invasori.

La presenza archeologica di siti della civiltà Indo-Sarasvati nelle sue zone più estremo-settentrionali si spingono fino a Shortugai sul fiume Amu Darya (nell’Afghanistan settentrionale) e risalenti al 2.000 a.C., ha costituito la prova inconfutabile del fatto che tali colonie fossero assai prossime a insediamenti indoeuropei rinvenuti in Asia centrale. Si ipotizza perfino la presenza di una sorta di bilinguismo in parecchie aree interessate, finché gli sconvolgimenti tettonici, causando forti modifiche socio-culturali, verosimilmente potrebbero avere in qualche misura contribuito al naturale diffondersi delle lingue appartenenti al ceppo indoeuropeo.

In definitiva, se molte congetture (dettate dallo sciovinismo e dal colonialismo europeocentrici, o da una immaginazione troppo fervida e troppo poco incline a sottoporsi a un rigoroso metodo scientifico) sono ormai definitivamente screditate, nuove ipotesi sono state formulate, ben più numerose di quelle precedenti! Ma la decifrazione scientifica del linguaggio Indo-Sarasvati resta ancora avvolta nel mistero.

Occorre pure aggiungere che nella maggior parte dei siti rinvenuti sulle rive del fiume Sarasvati le attività di scavo non sono ancora nemmeno iniziate. Dal canto loro, pure le pianure gangetiche, a causa dell’attuale sovrappopolamento, rendono estremamente difficoltosi i lavori di scavo e di ricerca. Peraltro, le regioni himalayane (finora quasi del tutto inesplorate da un punto di vista archeologico), potrebbero quasi certamente contenere indicazioni preziose — e qualcosa è già emerso in tal senso; tanto per limitarsi a offrire un singolo esempio, verso la fine del 2016 alcuni scienziati hanno scoperto che l’altopiano di Chusang, nell’attuale Tibet, era abitato da uomini già nel corso dell’ultima glaciazione: per la precisione, hanno rinvenuto tracce umane risalenti a 12.700 anni fa, ovvero, con ben settemila anni di anticipo rispetto a quanto ritenuto prima di tale prova.

Vi sono sempre più forti probabilità che l’India possa essere il centro da cui prese inizio la storia dell’unità linguistica indoeuropea (Ursprache) e, in una certa misura — teoria artica permettendo — la stessa patria di provenienza degli indoeuropei (Urheimat) i quali, in successive ondate migratorie, si sono propagati in così larga parte del mondo (occupando aree prima disabitate o unendosi a popolazioni già stanziate in altre aree), dando vita alle varie forme della civiltà indoeuropea, con tutte le ricche variazioni sul tema che ha saputo produrre nel corso dei millenni.

Si tratta, in ogni caso, di una civiltà immensa, di cui noi siamo gli ultimi depositari, purtroppo indegni (avendo scordato o rinnegato le radici gilaniche, pacifiche, spirituali)… L’attenta immersione nella grande poesia del Ṛgveda costituirebbe per l’appunto un primo significativo riscatto — da parte di ciascuno di noi — nel prendere coscienza delle nostre vere radici culturali e nel cercare di procedere oltre, nella individuazione e nella manifestazione del principio di unità tra “materia” e “spirito” che i bardi rigvedici avevano a cuore: l’obiettivo, per utilizzare il loro stesso linguaggio simbolico, consiste nell’armonizzare Padre Cielo e Madre Terra, in modo da produrre in ciascuno dei loro figli — vale a dire, in ognuno di noi — un perfetto riscatto e una suprema palingenesi, spirituale e insieme terrestre). Non basta, infatti, sognare o contemplare l’Essere dalle vette rarefatte dello spirito: occorre contemporaneamente calarne i suoi fulgori quaggiù, sulla terra (ihaiva, dice il Ṛgveda), in modo da palesare la vera realtà divina nel cuore stesso della materia e nell’intero divenire.



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