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PRACETAS & VICETAS


Nel tradurre il Ṛgveda, abbiamo cercato di trasporre le strofe vediche nel modo più chiaro possibile, affinché potesse trasparire il senso vero dell’intera innodia (mirabilmente svelato da Sri Aurobindo nel suo magistrale lavoro di esegesi The Secret of the Veda e altrove), mettendo quindi accuratamente da parte ogni elucubrazione e congettura. Anche in questo aspetto, abbiamo seguito le indicazioni di Sri Aurobindo — «Tradurre il Veda rasenta l’impossibile. Infatti, mentre una traduzione inglese letterale degli inni degli antichi illuminati costituirebbe una alterazione del loro significato e spirito, una versione che miri a portare in superficie tutto il reale pensiero sarebbe una interpretazione più che una traduzione. Ho tentato una via di mezzo, una forma libera e plastica che segua gli andamenti dell’originale e tuttavia consenta un certo numero di accorgimenti interpretativi in grado di far balenare la luce della verità vedica fuori dal velo del simbolo e dell’immagine.» (Il segreto dei Veda, La Calama editrice).

Seguendo tale regola aurea, abbiamo incontrato non poche difficoltà, che ci siamo grandemente adoprati a non far trasparire, per non tediare il lettore con prolissità semantiche che avrebbero reso fatalmente sterile la feconda poesia rigvedica.

Vorremmo tuttavia approfittare per offrire, mediante il presente articolo, almeno un esempio dello scarto immenso esistente fra l’esorbitante ricchezza del dettato rigvedico, e la nostra (così come, temiamo, quella di chiunque altro) traduzione. Purtroppo, l’assioma “traduttore traditore” risulta particolarmente azzeccato in ambito rigvedico!

Limitiamoci a considerare due termini vedici di primaria importanza: pracetas e vicetas. Nell’opera di Sri Aurobindo appena citata, nella sezione dedicata a una pregnante “Selezione di inni rigvedici” (nella fattispecie, l’inno III. 61, dedicato a Uṣas, l’Aurora divina), leggiamo:

«Il termine pracetas, e la parola collegata, vicetas, sono vocaboli costanti della fraseologia vedica; sembrano corrispondere alle idee espresse in un linguaggio posteriore vedantico con prajñāna e vijñāna. Prajñāna è la coscienza che conosce tutte le cose in quanto oggetti posti di fronte alla sua osservazione; nella mente divina è la conoscenza che guarda le cose essendone loro sorgente, signora e testimone. Vijñāna è la conoscenza totale che contiene e compenetra le cose, le pervade di coscienza mediante una sorta di identificazione con la loro verità.» — SRI AUROBINDO, Il segreto dei Veda (La Calama editrice, 2019).

Chi ha qualche dimestichezza con gli scritti di Sri Aurobindo, sa che egli ha identificato, proprio nei suddetti termini upanishadici prajñāna e vijñāna, due aspetti (speculari e concomitanti) dell’operato della “Coscienza-di-Verità sopramentale” (supramental Truth-Consciousness): la facoltà “comprendente” (comprehending) e la “apprendente” (apprehending). Per dirla in poche parole (per una chiara disamina si rimanda a The Life Divine, la maggiore opera in prosa di Sri Aurobindo, ancora in attesa di una adeguata traduzione italiana), la consapevolezza interiore dell’unità con il tutto deriva dalla facoltà ‘comprendente’ della coscienza sopramentale, mentre la capacità di manifestarne all’esterno quanto più possibile dipende dalla facoltà ‘apprendente’. Volendo offrire un’analogia, si può dire che l’intera luce del sole deriva dalla coscienza ‘comprendente’ della totalità della sfera solare stessa, mentre ogni singolo raggio è una specifica emanazione della coscienza ‘apprendente’ allo scopo di proiettare la luce al di fuori della propria massa, vale a dire nello spazio circostante. Sappiamo che la luce e la sua irradiazione fanno parte di un unico flusso di coscienza: è nella natura stessa della luce irradiare e i due aspetti sono inseparabili. Ogni singolo raggio può essere consapevole della totalità solare da cui proviene, pur potendone esprimere solo una parte (o, per lo meno, una parte per volta!). Per un essere ben stabilito nella coscienza sopramentale, ogni espressione della luce sarà perfetta e priva di deformazioni, in qualunque condizione si trovi a operare.

Tornando ai termini pracetas e vicetas, notiamo che nel Ṛgveda essi compaiono una settantina di volte (per la precisione, pracetas lo abbiamo trovato in 53 differenti strofe, vicetas in 17). Ecco l’elenco dettagliato degli inni in cui siamo riusciti a rintracciato questi due vocaboli (in tutte le loro varianti) —

Maṇḍalapracetasaḥvicetasaḥ
I39.9; 41.1; 44.7; 64.8; 84.1245.2; 83.1
II23.2
IV53.1
V87.917.4; 54.13
VI75.13
VII87.37.4
VIII7.12; 47.4; 67.17; 83.2/513.20
IX64.21
X63.8; 66.1; 85.17

Maṇḍalapracetasamvicetasam
I44.11
III29.5
IV1.17.3
VII16.12
VIII84.2; 90.6; 102.1846.14
X140.5
Maṇḍalapracetasāvicetasā
I159.1
V71.274.9
VIII9.15/20; 10.4
X36.2132.6
Maṇḍalapracetāḥvicetāḥ
I24.14190.4
II10.310.1-2
III25.1; 61.1
IV6.25.2
VI5.1; 5.5; 13.3; 14.224.2
VII4.4; 16.5; 17.527.2
X79.4; 87.9; 110.1; 164.473.4
Maṇḍalapracetase
I5.7; 43.1
VII31.10
VIII27.21

Come si può constatare, esiste perfino un inno (II.10) in cui i due termini sono entrambi presenti (nelle prime tre strofe).

Chi avesse voglia di andare a spulciare la nostra traduzione, nelle suddette occorrenze troverà che abbiamo tradotto pracetas nel senso di saggio, sagace, perspicace, luminoso o illuminante (con le variazioni di sfumatura richieste dal contesto, tutte pienamente accettate nel sanscrito); mentre per vicetas abbiamo utilizzato perlopiù il senso di “dotato di discernimento”. Così facendo, tuttavia, è stato giocoforza necessario sacrificare le più profonde implicazioni contenute nei vocaboli in questione, mutilando il testo. Peraltro, lo stesso Sri Aurobindo — nelle proprie traduzioni degli inni rigvedici — ha scelto di evitare ogni tortuosità gratuita, lasciando l’approfondimento di questioni linguistiche, esegetiche e mistico-filosofiche in opere specifiche.

Prima di concludere questo breve articolo, desideriamo altresì porre in rilievo il fatto che il testo rigvedico non è solo ricco di termini che nel sanscrito classico assumeranno un significato più ristretto (talvolta addirittura diverso dal vedico originale), ma presenta pure una quantità nient’affatto trascurabile di hapax legomenon, la cui traduzione è quindi impossibile da determinare con assoluta certezza. Giusto per sottolineare la difficoltà delle traduzioni rigvediche, offriamo quindi in chiusura un pugno di hapax rigvedici, corredato da qualche nota.


InnoVocaboloSignificato
I.34.9yogatale termine conoscerà un utilizzo preponderante in tutta la mistica indiana successiva (e, oggi, mondiale), pertanto non occorre fornire alcuna traduzione, fatto salvo il ricordare che — al di là di qualunque abuso commerciale — esso designa l’unione tra l’anima individuale e l’Anima suprema. Nel Ṛgveda la pratica yoga permea l’intera innodia, senza alcun bisogno di fare ricorso al termine.
II.23.16vrayas“potere superiore”, “forza soverchiante” (si suppone che derivi dalla radice vedica vrī, “ampio, sovrabbondante”, segnalata da Pāṇini, l’antico e celeberrimo grammatico indiano).
VII.20.9akrapiṣṭanel sanscrito ha preso a significare “lamentarsi”, “compiangere”; noi abbiamo tradotto “declamare a gran voce” (il latino crepitus, part. perfetto di crepo, “far risuonare”, “echeggiare”, crepitare”, pare avere preservato qualcosa del vedico originale).


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