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A proposito del Nirukta di Yāska


«Colui che è in grado di recitare i Veda
ma non ne comprende il significato
è come una cariatide o un mero portatore di carichi pesanti;
mentre colui che ne comprende il significato
otterrà ogni bene, qui e nell'aldilà»

Yāska


Yāska (vissuto almeno 2.500 anni fa) è il primo etimologo della storia a noi nota; intento a ricercare l'origine di ogni singola parola (o la derivazione di una parola da un'altra), con un approccio scientifico, produsse il Nirukta, un lessico dedicato a stilare una lista di parole vediche che già ai suoi tempi apparivano oscure nel loro significato, con l'intento di individuarne il senso; per fare ciò, si basò sul Nighaṇṭu, un antico testo che, come egli stesso segnala (Nirukta, I.20), conteneva un elenco (per nulla esaustivo) di parole vediche ostiche o rare, realizzato da studiosi a lui precedenti nel tentativo di comprendere gli inni rigvedici che già alla loro epoca risultavano alquanto enigmatici. La tradizione indiana tramanda una leggenda secondo la quale il Nighaṇṭu originale risalirebbe ai tempi vedici, ma a un certo punto venne sepolto sottoterra per essere messo in salvo (da un'inondazione o da scosse telluriche o altro ancora: questo punto non è precisato in modo chiaro). Parecchio tempo dopo, Yāska organizzò e guidò una équipe di persone al fine di effettuare alcuni scavi che potessero ricuperare l'antico testo. La leggenda narra che vennero in tal modo trovati alcuni frammenti dell'opera. Ebbene, il prof. Natwar Jha sostiene, con una certa sicurezza (nel suo "Vedic Glossary on Indus Seals"), che i sigilli rinvenuti nella valle dell'Indo-Sarasvati costituirebbero altrettanti frammenti di tale opera — questo sarebbe il motivo, a detta sua, dell'estrema lapidarietà delle varie iscrizioni rinvenute. Ipotesi intrigante, senza dubbio, ma che si trova ancora in fase di verifica (se dovesse dimostrarsi fondata, aprirebbe orizzonti alquanto affascinanti). Come che sia, il Nighaṇṭu sul quale Yāska si basò era composto da cinque sezioni (adhyāya) raccolte in tre libri (kāṇḍa):

  • Naighaṇṭuka kāṇḍa: i primi tre adhyāya contengono 1.341 parole: similitudini, sinonimi, metonimi e affini; il primo adhyāya si concentra prevalentemente su oggetti fisici (terra, acqua, nuvole, alba, giorno, notte), il secondo sull'essere umano (l'anatomia del corpo fisico, le qualità psicologiche ed emotive dell'uomo), il terzo su qualità e concetti più astratti.
  • Naigama kāṇḍa: contiene il quarto adhyāya, teso ad affrontare 278 singole parole (aikapādika) contenute nei Veda e ritenute omonimi particolarmente ambigui, il cui significato è di difficile comprensione.
  • Daivata kāṇḍa: ospita il quinto adhyāya, dedicato agli epiteti accordati a 151 divinità rigvediche.

Yāska riprende le annotazioni presenti nel Nighaṇṭu e cerca di estenderle e, se possibile, completarle. Fin dai tempi più antichi storicamente accertabili, il nirukta (l'etimologia) era considerato necessario per la comprensione del Veda, insieme ad altre cinque "membra vediche" (vedāṅga): la metrica (chanda), la fonetica (śikṣā), la grammatica (vyākaraṇa), i cicli rituali (kalpa) e infine l'astronomia (jyotiṣa).

samāmnāyaḥ samāmnātaḥ | sa vyākhyātavyaḥ |
tamimaṃ samāmnāyaṃ nighaṇṭava ityācakṣate ||

(Nirukta, I.1)

Il Nirukta si propone di rintracciare il significato di determinate parole nel contesto degli inni rigvedici; esso comprende pure l'esposizione di un sistema di regole per la formazione delle parole dalle radici, e un glossario di parole irregolari, costituendo in tal modo la base per i successivi lessici e dizionari. Yāska si occupò pure dei fonosimboli, dichiarando estremiste le concezioni di un certo Audambarāryaṇa, il quale considerava l'onomatopea come una delle possibili origini del linguaggio (poco dopo, il grammatico Pāṇini lo ritenne un fattore fondamentale, come sarà pure per Platone); Yāska, per contro, resta convinto che il fattore primario è la radice lessicale (dhātu): accettava che alcune parole fossero scaturite dalla mera imitazione di certi suoni presenti in natura (soprattutto emessi dagli uccelli), ma le radici costituivano per lui il fattore principale. Successivamente, Kātyāyana, distinguerà due opposte scuole, una (tra le cui fila si trova per l'appunto Yāska) ritiene il linguaggio proveniente da una fonte eterna, mentre l'altra lo considera come una forma transitoria. Come che sia, Yāska cercò di individuare le radici delle parole e nel far questo definì quattro categorie principali di parole (pāda): catvāri pādajatani nāmākhyāte copsargnipataśca

  1. ākhyāta (verbi);
  2. nāma (sostantivi);
  3. upasarga (preposizioni);
  4. nipāta (particelle grammaticali).

Yāska individuò due principali categorie ontologiche: un processo o un'azione (bhava) e un ente o un essere o una cosa (sattva): nei verbi sarebbe il bhava a essere predominante, mentre nei sostantivi predominerebbe sattva. Egli riteneva che i sostantivi fossero derivati dai verbi (affermazione che non trova tutti gli antichi grammatici indiani concordi: già il suo contemporaneo Gargya, per esempio, era di diverso avviso); e fornisce una lista di sei modifiche dei verbi: genesi, esistenza, alterazioni, crescita, decadimento e distruzione.

Tutte quelle parole che veicolano il significato subordinato dei verbi e dei sostantivi determinano le proposizioni. I grammatici indiani dell'antichità si chiesero se tali preposizioni avessero o meno un significato autonomo, e vi sono pareri discordanti fra di essi; Yāska era favorevole a ritenere che lo avessero e nel Nirukta elenca 20 upasarga (a, ā, para, abhi, prati, ati, su, nir, dur, ni, ava, ut, sam, vi, apa, anu, api, upa, pari, adhi) indicando il significato di ciascuno.

Infine, per quanto concerne le particelle, Yāska afferma che esse si presentano in tre sensi: comparativo, congiuntivo, espletivo. Egli fornisce un elenco di particelle in ciascun gruppo e ne spiega il significato; fornisce persino citazioni dalla letteratura vedica per illustrare i loro usi. Parecchie sono le particelle, ma lui scelse di elencarne ventitré (aha, a, it, iva, ima, u, ut, kam, kila, khalu, cha, chit, tvat, ha, nanu, nu, nunam, ma, na, sasvat, sim, ha, hi).

La radice, come si cennava, costituisce per Yāska la fonte originale di ogni parola. Nel rintracciare la radice delle parole vediche, egli segue tre principi basilari. Il primo è legato alle norme che regolano la fonologia: parole come vṛka e vṛjinā, pur avendo due significati nettamente differenti —rispettivamente, 'lupo' e 'tortuoso' —, non possono che derivare entrambe dalla radice vṛ, recante tutta una serie di significati che vanno dal lacerare, all'ostruire, al torcere (da cui vṛka nel senso di predatore che lacera, che sbrana; e l'aggettivo vṛjinā, nel Ṛgveda sempre riferito alle forze ostili che cercano di trascinare l'essere umano per vie traverse — tortuose, per l'appunto). Non sempre, però, è possibile rintracciare la radice di una parola facendo unicamente ricorso alla fonologia. Interviene quindi il secondo principio indicato da Yāska: il significato della parola stessa; per fare un esempio restando nella medesima radice da noi analizzata, sapendo che la parola varanta significa chiudere, sbarrare, ostruire, è facile farla risalire alla nostra radice vṛ. In realtà, tuttavia, a questo punto inizia una operazione alquanto rischiosa (ed è lo stesso Yāska a metterci in guardia). Infatti, essendo il vedico una lingua sopravvissuta unicamente nel Ṛgveda, come è possibile risalire alla radice di una parola che non presenta una stretta derivazione fonica dalla sua radice, se il suo significato risulta sconosciuto e la ricerca stessa della sua radice deriva dal bisogno di comprendere il vero significato della parola stessa? Classico cul-de-sac, da cui Yāska cerca di uscire ricorrendo al terzo principio da lui enunciato, che sottolinea l'importanza di valutare la parola all'interno del suo specifico contesto. Pertanto, se in tutto il Ṛgveda la parola varanta ricorre in concomitanza con lo scorrere di un qualche flusso che alcune forze vorrebbero impedire, sbarrare, fermare, la radice non può che essere quella da noi individuata — ed è proprio quello che si verifica nel nostro esempio. Il quarto principio enucleato è una diretta conseguenza del precedente e ne costituisce una sorta di controprova: se il significato della parola resta immutato ovunque ricorra, la parola deriva certamente dalla radice individuata. Questo principio lo si può estendere ai sinonimi: per dirla con Yāska, «se il loro significato risulta essere identico, la loro etimologia (nirvacana) è la medesima; se invece hanno significati differenti, in tal caso pure la loro etimologia differisce». Tutto ciò sembra semplice, ma in realtà, quando si tenta di calare nella pratica questi quattro principi, una quantità di problematiche insorge. Ma, per lo meno, si ha un metodo di indagine certo non infallibile ma sufficientemente solido. Non a caso, Yāska è considerato il primo etimologo dimostratosi capace di conferire a tale disciplina un carattere scientifico. Procedendo su queste basi, egli analizza una determinata parola, cerca di rintracciarne la radice, e su queste premesse tenta di individuarne il significato. Nel fare ciò, cita gli inni in cui quella specifica parola ricorre. Infine, come corollario, offre una serie di informazioni aggiuntive (storiche, geografiche, filosofiche, sociali), in grado di avvalorare il significato accordato. Questo procedimento, purtroppo, non offre garanzie certe; e, infatti, risulta ormai accertato (riconosciuto all'unanimità da tutti gli studiosi) il fatto che Yāska compie non di rado errori madornali — e, in misura assai maggiore, Sāyaṇa, l'altro grande etimologo dell'India classica che ha voluto avventurarsi nella ricerca del significato degli inni rigvedici. Come scrisse il grande sanscritista Arthur Macdonell, «Sāyaṇa fornisce spesso delle spiegazioni del tutto inconsistenti di una parola nell’interpretazione di un medesimo brano o nel commento di due diversi passaggi […]. Un attento esame dei loro commenti rivela con chiarezza come né Yāska né Sāyaṇa conoscessero con precisione un gran numero di parole del Ṛgveda» (A Vedic Reader for Students). Per la verità, lo stesso Yāska elenca, con grande onestà intellettuale, almeno quattro­cento termini vedici di cui egli ammette che in sanscrito hanno perso il loro senso originario o che addirittura sono caduti in desuetudine e non venivano più utilizzati già alla sua epoca. Mentre, leggendo il Ṛgbhāṣya di Sāyaṇa, ci si scontra con tutta una serie di incongruità talmente grossolane, da pensare che se i Veda non contengono un senso segreto, per­duto nelle acque dell’oblio, allora i suoi autori non sono tanto dei veggenti quanto degli squilibrati (non a caso Leopold von Schröeder, nel suo Mysterium und Mimus im Rigveda, paragonò gli inni vedici a «annotazioni di malati mentali conservate da alcuni psichiatri»). Se non se ne comprende il vero significato, pochissimi sono gli inni che possono veicolare un qualche altro significato compiuto.

A ogni modo, in conclusione del presente articolo riportiamo un breve elenco di morfemi presenti nel Nirukta di Yāska, in modo da fornire qualche esempio dei risultati ai quali egli pervenne (confrontandoli, tra parentesi quadre, con quanto scoperto da Sri Aurobindo).


*


aditi        "Integra (la Madre degli dèi)" (Nirukta).

[L'Immensa, l'Infinita: è l'assoluta Esistenza, l'aspetto dinamico della Realtà, la divina Coscienza-Forza creatrice dell'universo, la Luce suprema da cui derivano tutte le radiosità e le potenze.


aditirdyauraditirantarikṣam aditirmātā sa pitā sa putraḥ |
viśve devā aditiḥ pañca janā aditirjātamaditirjanitvam ||

(Ṛgveda, I.LXXXIX.10)


«Aditi è il cielo e il regno-di-mezzo,
Aditi è Madre, è Padre, è Figlio,
Aditi è Viśvedevā e i cinque popoli,
Aditi è ciò che è nato e che ha da nascere.»


Una errata filologia ritiene che la 'a' iniziale sia privativa: a-diti, la "non limitata", mentre in realtà diti e aditi (come Sri Aurobindo precisa ne Il segreto dei Veda ) provengono da due radici distinte: ad e di; volendo, possiamo affermare che Diti è colei che apporta divisione, mentre Aditi è l'Indivisibile. Sri Aurobindo: «Aditi, l'infinita Madre degli dèi, è l'energia femminile primordiale; da Lei scaturiscono cinque potenze della coscienza-di-Verità: Mahī o Bhāratī, la vasta Parola che apporta tutto ciò che proviene dalla sorgente divina; Iḷā, la possente parola primeva della Verità, che ci dona la sua visione dinamica; Sarasvatī, il flusso discendente e la parola della sua ispirazione; Saramā, l'intuizione, il segugio del cielo che discende nelle caverne del subcosciente e vi trova le illuminazioni nascoste; Dakṣiṇā, la cui funzione è di discernere correttamente, predisporre l'azione e l'offerta, e distribuirla tra le varie divinità» (Inni al Fuoco mistico)].


adhriguḥ        "Irresistibile" (Nirukta).

[Si tratta di un termine che nel Ṛgveda è collegato perlopiù all'azione per l'appunto invincibile, ineluttabile, del divino Agni nell'umano strumento. Sri Aurobindo: «Agni Jatavedas è il raggio della conoscenza divina nel presente stato di esistenza incarnato: egli è adhriguḥ, la Luce nel nostro essere incarnato. Per questo motivo l'intera azione da noi offerta a Agni quale opera del tapas divino diventa nella sua natura un'attività autoeffulgente in grado di condurci (che la nostra mente ne sia cosciente o meno, oppure in modo sovracosciente, guhāhitam) verso la meta divina. [...]. In qualità di adhriguḥ, la Luce divina nel nostro essere incarnato, Agni deve recarci un'illuminazione di conoscenza nella nostra mentalità che è ojistha, la più piena di ojas, sovrabbondante di potenza effettiva. Con l'azione guidata dal Divino, il nostro cuore e il nostro intelletto vengono pervasi di potere e di luce o, piuttosto, di luce che è potere e di potere che è luce, poiché conoscenza e forza sono nella natura divina un'unica entità. Agna ojiṣṭhamā bhara dyumnamasmabhyam adhrigo.» (Inni al Fuoco mistico). La citazione rigvedica proviene dal primo verso della strofe di apertura del decimo inno del quinto Maṇḍala che, tradotto, suona così —


O Agni, Luce nella nostra vita
limitata, una illuminazione
colma di somma energia porta a noi].


adriḥ        "Nubi" (Nirukta).

[La Montagna, la Pietra: rappresenta la sostanza nella sua forma più densa, la roccia del subcosciente materico, la base fondamentale da cui tutto ha preso inizio. Yāska è stato condotto in errore probabilmente a causa del fatto che in sanscrito uno dei significati plausibili del vocabolo in questione è "una massa di nubi a forma di montagna"; ma nel Ṛgveda esso riveste un significato inequivocabile: è la caverna ove i paṇi, le forze dell'oscurità, nascondono le luci sovracoscienti; la materia, estrema precipitazione dello spirito, trattiene nelle sue profondità subcoscienti (le mitiche "caverne dei paṇi ", per l'appunto) la luce divina che dovrà nuovamente emergere, per progressiva manifestazione: la materia potrà infine palesare quel che già è nella sua realtà più profonda: una forma cosciente dello spirito. Sri Aurobindo: «Adri, la montagna o la roccia, è un simbolo dell'esistenza formale e, in particolare, della natura fisica, ed è da questa montagna o roccia che le mandrie del Sole vengono liberate e le acque prendono a scorrere. I flutti del madhu, il miele, il Soma, si dice che vengono estratti da tale Montagna o Roccia.» (Il segreto dei Veda). «La nostra esistenza cosciente è una montagna (adri) avente molteplici livelli e vette, sānūni; la cava del subcosciente sta al di sotto: noi ascendiamo verso la divinità di Verità e Beatitudine, laddove risiedono i seggi dell'immortalità, yatrāmṛtāsa āsate (Ṛgveda, IX.XV.2).» (ibidem). Il sanscrito ha ereditato parecchi significati della parola adrim presenti nel vedico: oltre a quelli segnalati, ricordiamo pure "folgore" (il vajra di Indra), che il Ṛgveda chiama, per l'appunto, la Pietra celeste, svaryam aśmānam (Ṛgveda,V.XXXIX.1)].


anarvā         "Indipendente" (Nirukta).

[Sri Aurobindo, commentando un passaggio rigvedico in cui accorre tale parola, precisa: «Ritengo che il significato esatto di anarvā sia andato perduto, e corrisponde a "non combattente", nel senso di "privo di nemici"; an+arvan, non nemico. La radice ar esprime eccellenza, forza o preminenza di qualunque tipo: sia essa (1) nell'essere, (2) nell'azione, (3) nel movimento, (4) nella luce. Da (1) deriva il concetto di eccellenza, virtù, nobiltà, signoria, onore, elevare, comandare: arya, ārya, argha, arca, arha; le voci tamil aran e aram (virtù), i termini greci áristos, aírō, árchō, árchomai, aretḗ, óros (montagna); dal (2) il significato di combattere, uccidere, compire, opprimere: in ar, arv, arṣ, ard, ari, Ares, arāti, arma, araraḥ, e aratro, lavoro, remare, spingere in ar, aro, arvum, aróō, árotron, ároura, [sanscrito] aritram, araryati; dal (3) il significato di movimento rapido, in ara, arv. L'idea presente in anarvā kṣeti significa che il sādhaka per il quale Agni, signore del puro tapas, opera tutte le operazioni dello yoga, il sacrificio interiore, apportando una solida stabilità nella siddhi (sādhati) e stabilendolo in essa (kṣeti) senza necessità di combattere: Agni distrugge tutte le forze contrarie, gli amivas, e grazie alla sua protezione (avas) impedisce ulteriori attacchi.» (Inni al Fuoco mistico). Il passo rigvedico in questione si trova all'interno del 94° inno del primo Maṇḍala e corrisponde alla seconda strofe, che riportiamo per intero —


asmai tvamāyajase sa sādhatyanarvā kṣeti dadhate suvīryam |
sa sūtāva nainamaśnotyaṁhatirasre sakhye mā riṣāmā vayaṁ tava ||


Colui che interiormente, o Agni, opera,
vede la perfezione pervenire
al frutto del suo sforzo: una Dimora
sulla Vetta dell’essere ov’è assente
battaglia o inimicizia; in se stesso
egli conferma un’ampia energia;
nella sua forza è sicuro; il male
la mano su di lui non può posare].


ātma        "Anima" (Nirukta).

[Questo termine, che assumerà un ruolo preminente nelle Upaniṣad e in tutta la mistica sanscrita successiva, nel Ṛgveda ricorre una trentina di volte, e il suo significato è già chiaramente prefigurato (si veda, per es.: VII.CI.6 o X.CVII.7). Verrà poi sviluppato con maggiore dovizia metafisica, anzitutto mediante la distinzione (pragmatica, sebbene in realtà non effettiva, in quanto nella realtà più essenziale delle cose tutto è l'unico ātman) tra Paramātma, Jivātma e Antarātma: l'Anima suprema, l'anima individuata universale e l'anima interiore dell'individuo. Nell'Essere, tutto è uno; nel Divenire cosmico, l'Essere si è proiettato in innumeri rifrazioni di sé, per gli scopi teleologici della manifestazione progressiva di Sé].


barhaṇā        "Vigoroso" (Nirukta).

[Sri Aurobindo: «Troviamo barhaṇā e barhas nel senso di forza o potere [...]. Il significato basilare è evidentemente forza, pienezza, grandezza, espansione, splendore o tutto ciò che risulta essere dotato di tali attributi: una seduta accogliente, una foglia che si apre, la coda di pavone spiegata o rilucente, la fiamma radiosa, l'ampia distesa dell'etere, un vasto flusso d'acque» (Studi vedici e linguistici). In pratica, negli inni rigvedici barhaṇā indica forza (Ṛgveda, I.LIV.3; V.LXXI.1; IX.LXIX.5); barhaṇāḥ tende invece a esprimere splendore, ovvero, una forza irradiante (Ṛgveda, III.XXXIV.5); mentre l'epiteto barhaṇā'vat, "apportatori di forza radiosa", è ovviamente riferito alle divinità (III.XXXIX.8)].


bhṛmi        "Gorgo" (Nirukta).

[Si tratta di un termine dai molteplici significati, tutti accomunabili: 'turbolento', 'agitato', 'vorticoso' (da cui 'gorgo'). Nel Ṛgveda assume un'accezione molto particolare, legata al percorso del ricercatore sul sentiero della trasformazione che, accortosi di trovarsi a "girare in tondo" nel gorgo delle proprie costruzioni mentali (I.XXXI.16), invoca l'Aiuto divino in grado di fargli superare l'impasse e di trasportarlo infallibilmente verso la Meta].


cakram        "Ruota" (Nirukta).

[Il cakra è uno dei simboli più importanti in assoluto. Nel Ṛgveda è presente in abbondanza, e il suo utilizzo a scopi simbolici è chiarissimo. Qualche esempio:


(I.XXX.19):Sulla cima del Monte avete posto
una Ruota del Carro, mentre l’altra
è intenta a perlustrare l’Estensione.
(I.CLXIV.2): Sette Redini servono a dirigere
il Cocchio monoruota, con un solo
Destriero splendido dai sette raggi;
di tre mozzi è la Ruota, imperitura,
inesausta, che regge tutti i Mondi.
(I.CLXIV.11): La Ruota d'Agni, dai dodici raggi,
gira indefetta intorno al Cielo; qui
o Agni, settecentoventi Figli
stanno a coppie, trovando il loro Seggio.
(IV.XXVIII.2): Indra, a te unito, verso il Basso ha volto
con veemenza la Ruota del dio Sårya;
tale Ruota, lanciata nello Spazio,
è il fondamento di tutte le vite,
separata dal grande Distruttore.
(V.LXXIII.6): Viaggiatori celesti della Luce,
voi avete fissato un’altra Ruota
di Splendore sul Cocchio, a sostegno
di Ciò che assume una forma; le altre
procedono attraverso questi Regni
e queste fasi dei figli di Nāhuṣa.
(VIII.XXII.4): Una ruota del Cocchio spazia in Cielo
mentre l’altra raggiunge i doppî Estremi;
Signori di Splendore, come Vacca
da Latte-della-Gnosi, raggiungeteci.
(X.LXXXV.16):   I flamini, Sūryā, ben riconoscono
le tue due Ruote, ma ve n’è una terza,
che solo sanno scorgere quei savî
che le più alte Verità conoscono.

La successiva mistica Tantra identificherà, nel corpo sottile dell'uomo, una serie di centri di coscienza che verranno definiti cakra (a causa del loro dinamismo), grazie ai quali l'essere umano può avere accesso a tutta una serie di piani di coscienza soprafisici].


camasaḥ        "Coppa" (Nirukta).

[Nel Ṛgveda, la coppa (camasaḥ, camū) rappresenta la parte ricettiva dell'essere umano, aperta verso l'alto, che deve essere riempita con il divino liquore. In un passo specifico (I.XX.6), avviene la moltiplicazione in quattro della coppa dalla quale bevono le divinità, a opera dei Ṛbhu, gli artigiani dell'immortalità —


E della nuova coppa del dio Tvaṣṭṛ,
resa perfetta, ne foggiate quattro.


Sri Aurobindo: «Nell'opera sacrificale, gli dèi bevono il nettare dalla quadrupla coppa, camasaṁ caturvayam. Infatti, Tvaṣṭṛ, il Formatore delle cose, ha dato in origine all’uomo solo un'unica coppa, la coscienza fisica, il corpo fisico, nella quale offrire agli dèi la delizia dell’esistenza. I Ṛbhu, poteri della conoscenza luminosa, prendono la coppa, rinnovata e perfezionata dall’operato successivo di Tvaṣṭṛ, e formano nell’uomo, con la sostanza dei quattro piani, altri tre corpi: vitale, mentale e causale o ideale (Uta tyaṁ camasaṁ navaṁ tvaṣṭur devasya niṣkṛtam akarta caturaḥ punaḥ). Avendo creato questa quadruplice coppa di beatitudine, con la quale hanno permesso all’uomo di vivere sul piano della coscienza-di-Verità, essi sono in grado di stabilire nell’essere umano diventato perfetto le tre volte sette estasi dell’esistenza suprema, riversate nella mente, nel vitale e nel corpo. Possono perfettamente donare ognuna di esse, grazie alla piena espressione della loro singola e assoluta estasi anche quando sono associate nel tutto (Te no ratnāni dhattana trir ā sāptāni sunvate ekam ekaṁ suśastibhiḥ).» (Il segreto dei Veda). Un ulteriore passo rigvedico (V.LXXXV.3) offre una diversa suggestione poetica:


Varuṇa ha riversato sulla terra,
sul cielo e il mondo intermedio la coppa
della saggezza con le porte aperte
verso il basso; con lui il Re di tutto
inonda il nostro essere e la terra,
come la pioggia irriga un campo d’orzo


Sri Aurobindo: «La gnosi si apre verso l’alto per ricevere l’Infinito nella sua volontà e conoscenza; qui le sue porte si aprono verso il basso per inondare l’essere inferiore.» (ibidem)].


dadhikrā        "Cavallo" (Nirukta).

[Dadhikrā (Dadhikrās, Dadhikrāvan) è certamente un cavallo, ma non si tratta di un semplice cavallo, foss'anche un purosangue di razza: è un dio con funzioni alquanto specifiche, come si evince chiaramente analizzando le strofe rigvediche a lui dedicate. È il divino ‘ritempratore’, e viene invocato affinché prolunghi l’esistenza di quanti hanno "la bocca colma di miele", in riferimento alla madhuvidyā, ritenuta la forma suprema di conoscenza. Egli rappresenta uno speciale potere divino costituito di radiosa energia dinamica, spontaneamente in possesso di alcuni segreti della trasformazione del corpo fisico: infatti, pare in grado di conferire, al veg­gente illuminato dalla Verità, la capacità di incarnare la beatitudine divina perfino nella sostanza più spe­cificamente materiale dell’esistenza fenomenica.


Con la sua Forza, Dadhikrās irradia
le cinque specie d’esseri, qual Sūrya
che illumina le Acque coi suoi Raggi;
possa il valente Destriero venire
presso di noi e sulle mie parole
di miele faccia piovere i suoi doni. (Ṛgveda, IV.XXXVIII.10).


Sri Aurobindo: «Il potenziamento di tutte le divinità si rivela necessario per l’ottenimento della perfezione di ogni nostro livello: nel nostro essere e coscienza fisici; nella compiuta forza della rapidità vitale, dell’azione, del godimento e della vibrazione nervosa, simboleg­giati dal divino cavallo Dadhikrāvan; nella piena felicità del cuore emotivo e nell’ardente chiarezza intellettuale, in tutto il nostro essere mentale e psi­chico; nell’avvento della Luce sopramentale, dell’Au­rora, del Sole e della Madre radiosa, in modo da poter trasformare l’intera nostra esistenza; mediante tale procedimento, si perviene al possesso della Verità e, per suo tramite, dell’onda mirabile della Beatitudine, nell’infinita Coscienza dell’essere assoluto.» (Il segreto dei Veda).


Possa questo munifico Destriero,
coraggioso in Battaglia e vincitore
delle Vacche-di-Luce e del Tesoro,
accorrere alle nostre sacre Offerte
e a noi recare le Aurore nutrici;
che Dadhikrās, dimorante nel Vero
e amante dello yajña del Cammino,
possa recarci, come uccello in volo,
il Potere, la Luce e l’Abbondanza. (Ṛgveda, IV.XL.2).


Sri Aurobindo: «La Forza necessaria risulta essere quella della Volontà divina, affinché accolga tutte le umane energie e si riveli in esse; tale Volontà, tale forza di energia cosciente [...] è simboleggiata da Dadhikrāvan.» (Il segreto dei Veda).


Dadhikrās un Passaggio possa aprirci
lungo la Via diritta; possa Agni
udirci, dio di Forza e, insieme a lui,
le schiere celestiali dei Possenti. (Ṛgveda, VII.XLIV.5)].


dakṣ        "Causare; compiere" (Nirukta).

[In quanto radice di alcuni rilevanti termini rigvedici, dakṣ presenta in realtà tre differenti valenze, che Sri Aurobindo enuclea con estrema precisione e che sintetizziamo qui:
1) essere abile, competente;
2) crescere, incrementare;
3) procedere, muoversi, agire in modo solerte.
Due derivati di questa radice, nel Ṛgveda, assumono particolare rilevanza: dakṣa (maschile) e dakṣiṇā (femminile). Si tratta di due nomi di persona, attribuiti a rispettive divinità fortemente connesse tra loro: il dio dell'intelligenza discriminatrice (dakṣa: dividere, separare, discriminare) e la dea sua paredra, che, come sempre in simili casi, costituisce l'energia operativa del dio, la sua forza esecutrice. Sri Aurobindo: «Dakṣa essendo il dio che arreca la facoltà del giudizio discriminativo, Dakṣiṇā è la facoltà apportatrice d'intelligenza, discriminazione o raziocinio. L'intelligenza viene descritta come aggiogata al suo carro» (Studi vedici e linguistici).
Talvolta, però, il nome di persona viene utilizzato come aggettivo, per designare la qualità di un qualche dio — per esempio, Mitra. Sri Aurobindo: «Agni e Mitra sostengono e aiutano Dakṣa quando quest'ultimo è all'opera: dakṣam apasam. Peraltro, Mitra viene descritto come dotato di puro dakṣa. L'aggettivo dakṣa significa arguto, intelligente, capace, al pari di dakṣiṇā, analogamente al greco dexiós, come pure dóxa, giudizio, opinione, dokéō, penso, e il latino doceo, insegnare, dottrina, eccetera. Come indicano tali somiglianze, Dakṣa è in origine colui che divide, analizza, discerne: è la facoltà intellettuale o, nel caso del dio, il signore di tale facoltà, tesa a discernere e a distinguere.» (Studi vedici e linguistici).
Il commento che Sri Aurobindo offre della quinta strofe dell'inno XVIII contenuto nel primo Ciclo rigvedico è altamente istruttivo. Riportiamo anzitutto la strofe medesima:


tvaṁ taṁ brahmaṇaspate soma indrasca martyam | dakṣiṇāpātvaṁhasaḥ ||


Possiate voi, Brahmaṇaspati e Indra
e Soma e Dakṣiṇā, salvaguardare
i mortali dal fio della Menzogna.


Sri Aurobindo: «Qualunque male è una deviazione dal giusto e dal vero, dal ṛtam, una deviazione dalla verità esistente-in-sé della natura divina o immortale; i signori della conoscenza, dimorando nella coscienza umana quali pracetasaḥ, ne dirigono gli atti di coscienza che includono, nell'antica psicologia, l'azione e il sentimento non meno del pensiero, accordandoli in modo da seguire spontaneamente l'esatto ritmo del giusto e del vero divini, affrancando efficacemente la natura umana e mortale dal male e dell'errore. Il ruolo della coppia Dakṣa-Dakṣiṇā in tale azione è evidente, e appare primario e indispensabile: essendo la natura mortale piena di percezioni fallaci, pulsioni deformate, sensazioni negative, contorte e confuse, è compito di viveka condurlo fuori da tale confusione e abituare la mente e il cuore umani a un operato più giusto, più vero e più puro. L'azione delle altre facoltà della Verità si può dire che giungono dopo quella di Dakṣa, di viveka.» (Studi vedici e linguistici).


dhenu        "Vacca da latte" (Nirukta).

[Ci imbattiamo qui in uno dei più gravi fraintendimenti della terminologia rigvedica. Infatti, per comprendere a fondo il termine dhenu, occorre coglierne le implicazioni profonde, già chiaramente sottese nel suo significato letterale. Dhenu significa anzitutto "colei che arreca nutrimento" e solo per riduzione tale vocabolo è stato utilizzato (dapprima nel vedico come uno dei suoi tanti significati possibili, poi nel sanscrito in modo più distintivo e settoriale) "vacca da latte" — il che fece cadere Yāska in fallo. Dhenu, nel Ṛgveda, è la divinità che apporta vigore fecondo, che nutre l'umano spirito con prodigalità e generosità sovrabbondanti. Se poi teniamo presente che il termine vedico go significa al contempo "vacca" e "luce" (e che viene utilizzato nel Ṛgveda in relazione con il dio Sole e la dea Aurora — cfr. "le mandrie del sole" presenti nell'Odissea omerica, boes Helioi), abbiamo la chiave esatta del significato. Che, non a caso, è l'unico a conferire un senso compiuto agli inni rigvedici in cui accorre tale termine. Prendiamo per esempio la sedicesima strofe del primo inno contenuto nel quarto Ciclo rigvedico:


te manvata prathamaṁ nāma dhenostriḥ sapta mātuḥ paramāṇi vindan |
tajjānatīrabhyanūṣata vrāāvirbhuvadaruṇīryaśasā goḥ ||


I sette triplici Piani supremi
scopriron della Madre e il primo Nome
delle Vacche-di-Luce; rosea, Uṣas
palesò lo Splendore degli Armenti.


Sri Aurobindo: «La Madre è Aditi, la coscienza infinita, che è Dhenu, la vacca nutrice con le sette correnti del settuplo flusso, analogamente a Go, la Vacca-di-Luce con le Aurore quali sue figlie; la rosea Uṣas è l'Aurora divina, e le mandrie o i raggi sono le sue albeggianti illuminazioni.» (Il segreto dei Veda). «Le due immagini consuete accorrenti in dhenu e in yahvā ["acque correnti"] intendono esprimere l'inseparabile unione del potere divino con la luce divina e l'essere divino. Tutti gli dèi sono davvero uṣarbudhaḥ: con l'albeggiare della rivelazione tutte le facoltà divine in noi sorgono dalla notte in cui si erano assopite.» (Studi vedici e linguistici).


dūtaḥ        "Messaggero" (Nirukta).

[Nell'intero corpus rigvedico, dūta (dūtaḥ, dūtaṁ) è un appellativo di Agni, il nunzio degli dèi presso gli uomini e, contemporaneamente, l'inviato dagli uomini agli dèi, nel ruolo di intercessore. Non vi sono, né possono esservi, fraintendimenti di sorta: il dio Agni riveste il ruolo di mediatore tra l’essere umano e le potenze divine, è il messaggero fra Cielo e Terra, inviato dagli dèi e che gli uomini, a loro volta, ospitano in sé al punto da renderlo loro inviato presso gli dèi. In qualità di dio del fuoco mistico, Agni aiuta l'essere umano a elevarsi verso l'alto, contrastando vittoriosamente le forze gravitazionali che vorrebbero invece spingerlo verso il basso; perfino di notte, nella coscienza ottenebrata e non illuminata dalle divinità aurorali e dal dio della gnosi solare, Agni arde e la sua fiamma eleva verso le supreme altezze il ricercatore della luce e della verità.


Agni qual Messo invochiamo, onnisciente,
convocatore, messaggero e nume
realizzatore del nostro Percorso. (Ṛgveda, I.XII.1)


Il ruolo fondamentale del dio Agni nel Ṛgveda è chiaro e inequivocabile (tranne che per gli indologi saccenti che credono di sapere tutto e non sanno niente): egli è marteṣu amṛta che, tradotto letteralmente, significa "l'immortale nei mortali" — ovvero, quello che noi oggi definiremmo "il divino immanente", facendo ricorso a una terminologia astratta; per contro, i veggenti rigvedici erano fortemente pragmatici, e le loro immagini sono estremamente vivide e concrete].


gāvaḥ        "Raggi solari" (Nirukta).

[Qui, Yāska non ha esitazione nel tradurre gāvaḥ come "raggi solari": questo infatti significa esattamente gāvaḥ, derivato da go, luce (e, al contempo, vacca). Sāyaṇa non avrà esitazioni, invece, a collegare tale termine con le vacche da latte, distruggendo completamente le sottigliezze del simbolismo rigvedico. Sri Aurobindo: «Gu (gavaḥ) e go (gāvaḥ) mantengono in tutti gli inni rigvedici questo duplice senso di vacche e radiosità. Nell’antico sistema di pensiero indiano, essere e coscienza erano aspetti l’uno dell’altra, e Aditi, l’esistenza infinita, dalla quale nascono gli dèi, è descritta come la Madre con sette nomi e sette sedi (dhāmāni), anche concepita come la Coscienza infinita, la Vacca, la Luce primordiale, manifestata nelle sette Radiosità, sapta gāvaḥ. Il settuplo principio dell’esistenza è dunque immaginato da un certo punto di vista nella figura dei Fiumi che sgorgano dall’oceano, sapta dhenavaḥ, da un altro nella figura dei raggi del Padre che tutto crea, Sūrya Savitar, sapta gāvaḥ. [...] Aditi è la sorgente di tutte le forme cosmiche della coscienza, da quella fisica in su; le sette vacche, sapta gāvaḥ, sono le sue forme ed esistono, viene detto, sette nomi e sette sedi della Madre. Uṣas, in quanto madre delle vacche, non può che essere una forma o un potere di questa Luce suprema, questa Coscienza suprema, Aditi. E infatti è così che la troviamo descritta in Ṛgveda, I.CXIII.19, mātā devānām aditer anīkam, «Madre degli dèi, forma (o potere) di Aditi. [...] La nostra evoluzione men­tale prende inizio con queste orde animali, questi paśu; nel progresso dell’ascesa, esse diventano gli armenti splendenti del Sole, gāvaḥ, i raggi, le vacche divine del Veda. È questo il signi­ficato psicologico del simbolo vedico.» (Il segreto dei Veda)].


paṇi        "Trafficanti" (Nirukta).

[Sri Aurobindo: «I Dasyu che trattengono o rubano le vacche sono chiamati Paṇi, parola che sembra avere significato in origine gli agenti, i negoziatori o i trafficanti; ma questa accezione assume talvolta la sfumatura aggiuntiva di ‘avari’. Il loro capo è Vala, demone il cui nome designa probabilmente colui che circoscrive, o colui che recinta, così come Vṛtra significa l’oppositore, colui che ostruisce o colui che ricopre avviluppando. [...]. Vala abita in un covo, una caverna (bila) nelle montagne; Indra e i ṛṣi Āṅgirasa devono inseguirlo per costringerlo a cedere la sua ricchezza, perché lui è Vala delle vacche, valaṁ gomantam. I Paṇi sono anch’essi rappresentati come ricettatori degli armenti rubati, che celano in una caverna della montagna, chiamata la loro prigione nascosta, vavra, o il recinto delle vacche, vraja, talvolta anche con una espressione significativa, gavyam ūrvam, letteralmente “la distesa delle vacche” o, nell’altro significato di go, “la distesa luminosa”, la vasta ricchezza degli armenti splendenti. [...] Saramā, il segugio celeste, deve scoprire le vacche nella caverna dei Paṇi; Indra, nella potenza del vino-di-Soma, con i veggenti Āṅgirasa, suoi compagni, deve seguire la traccia, penetrare nella caverna o far saltare violentemente le fortezze della montagna, sconfiggere i Paṇi e condurre in alto gli armenti liberati.» (Il segreto dei Veda)].


rādhas        "Ricchezza" (Nirukta).

[La traduzione offerta da Yāska è corretta; occorre soltanto riconoscere che, per i veggenti rigvedici, non vi è alcuna rigida distinzione fra la ricchezza interiore e quella esteriore: quando invocano rādhas, lo fanno sempre in riferimento a quell'unica ricchezza che, dall'interno, si manifesta anche all'esterno; quando invece quest'ultima non deriva da una reale acquisizione interiore, non la si può definire autentica, ma frutto di un furto. L'unica vera ricchezza è satyarādhas, la ricchezza della verità e sgorgante dalla verità: essa reca con sé amrtam, svarājyam e samrājyam — immortalità, dominio di sé e del mondo circostante. Yāska, poco oltre nel Nirukta, assegna il medesimo significato di ricchezza pure ai termini vedici rayiḥ erekā, che sono certamente sinonimi, ma che presentano però sfumature differenti: rayiḥ veicola una connotazione più dinamica e concreta, legata alla sostanza della coscienza-forza e al fondamentale benessere che apporta, mentre rekā rappresenta la pienezza di godimento derivante dall'ospitare in sé satyarādhas.]


rathaḥ        "Carro" (Nirukta).

[Come sovente si riscontra, la traduzione offerta da Yāska quasi sempre non risulta essere errata (o non del tutto, se non raramente): talvolta va solo contestualizzata nel modo corretto, mentre in altre occasioni occorre comprenderne a fondo il significato ricercandone la radice originaria, esattamente come lo stesso Yāska si sforzava di fare (non sempre riuscendoci, però: l'impresa non è affatto facile). Nel Ṛgveda, tradurre rathaḥ nel senso di carro è corretto, ma occorre capire a quale carro si faccia riferimento, anzitutto. Inoltre, come illustra Sri Aurobindo, «etimologicamente, rathaḥ significa sia movimento rapido (da cui "carro"), sia forte emozione (in particolare beatitudine, estasi); cfr. rati, rāti (piacere, delizia), rāyaḥ, rāḥ (felicità), raḥ (amore, desiderio), raṁsu (delizioso), raṇaḥ (delizia, gioia), rasa (piacere, gusto, sapore)» (Inni al fuoco mistico)].


saras        "Acqua" (Nirukta).

[Il termine saras, in sanscrito, ha assunto una serie di significati che derivano tutti dal senso originario di "scorrere": quindi, per estensione, oltre a "acqua" indicato da Yāska come senso del termine vedico, vi è pure tanica, fluido, lago, grande specchio d'acqua, eloquio (nel senso di scorrevolezza della parola), bacino di raccolta dell'acqua, e, più in generale, tutto ciò che scorre. Nel Ṛgveda, Sarasvatī (letteralmente "colei che scorre") è la dea dell'ispirazione poetica, in riferimento per l'appunto al riversarsi delle correnti dell'ispirazione; inoltre, il nome di tale dea venne presto utilizzato per designare il fiume principale presso cui si stanziarono le popolazioni facenti parte della cultura vedica].


satya        "Verità" (Nirukta).

[Sri Aurobindo: «Satyam è la Verità, il principio dell'Essere infinito e divino, Sat oggettivato in conoscenza quale Verità delle cose manifeste-in-sé» (Studi vedici e linguistici)].


usrā        "Vacca" (Nirukta).

[Sri Aurobindo: «Nel Ṛgveda, il termine usra è sempre utilizzato, proprio come go, con il doppio senso di figura concreta o simbolo — la Vacca —, e al contempo l'indicazione psicologica delle radiosità, delle splendenti, le potenze illuminative della Verità nell'uomo» (Il segreto dei Veda)].


vala        "Coprire" (Nirukta).

[Sri Aurobindo: «Vala è uno dei titani che negano all'uomo una superiore ascesa, un titano che possiede ma copre e nasconde all'uomo i regni luminosi della verità ideale, interponendo lo hiraṇmayam patram dell'Iśa Upaniṣad, il coperchio d'oro, da cui è celato il volto della verità, satyasyapihitam mukham» (Studi vedici e linguistici). Non a caso gli inni rigvedici, pur indicando Vala come una potenza ostile, lo chiamano valaṁ gomantam, "Vala delle radiosità"].


yajñā        "Atto di adorazione" (Nirukta).

[Uno dei termini più importanti e insieme maggiormente fraintesi del Ṛgveda. Lo yajña rigvedico è, nella sua più autentica essenza, un viaggio, una marcia inizia­tica di crescita spirituale e di progresso integrale: upa­prayanto adhvaraḥ, recita la formula di apertura dell'inno I.LXXIV. È il percorso interiore che il ricercatore compie per arrivare a manifestare la Divinità in tutti i suoi più disparati attributi. Ma c'è dell'altro — Sri Aurobindo: «Yajña è il Maestro dell’universo, la vivente Intelligenza universale che dispone e con­duce il proprio cosmo; Yajña è il Divino. [...] E non solo il Divino è Yajña, ma ogni azione è yajña, come pure lo yoga (grazie al quale l’azione diventa possibile) è yajña. [...] Ogni azione è un’offerta al Divino, e il mondo è l’altare della nostra lunga sessione sacrificale.» (Inni al fuoco mistico)].



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