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Chi erano i Paṇi menzionati nel Ṛgveda?

Nel Ṛgveda si trova un pressoché costante riferimento ai Paṇi, in antagonismo con gli dèi e con gli esseri umani. Una quarantina di inni li nominano, sparsi per tutti i dieci Maṇḍala — con le sole eccezioni del quinto e del nono — di cui è composta l’innodia.

Sri Aurobindo, nella sua illuminante opera di esegesi rigvedica intitolata The Secret of the Veda (ediz. italiana “Il segreto dei Veda”), ha messo in luce il fatto che si tratta di forze ostili al progresso dell’umano aspirante (non a caso, talvolta vengono menzionati quali Paṇyāsura, “asurici Paṇi”), giungendo quindi alla conclusione che, per citare le parole dello stesso Sri Aurobindo, «Dasyu, Paṇi e Vṛtra non possono essere guerrieri umani... La battaglia ha luogo non sulla terra, ma sull’altra riva dell’antarikṣa. I signori dell’ignoranza devono essere uccisi o asserviti alla Verità, tuttavia la loro ricchezza è indispensabile alla realizzazione umana» (op. cit.).

Analizzando il testo rigvedico in modo simbolico e spirituale (e l’inno 108 del decimo Ciclo è particolarmente pregnante in tal senso, contenente un intenso colloquio tra la dea Saramā e i Paṇi), si giunge infatti a riconoscere che i Paṇi rivestono la funzione di «miseri trafficanti della vita sensoriale, ladri che nascondono la luce e le sue illuminazioni — una schiera gelosa del proprio bottino, che non offre agli dèi» (Sri Aurobindo, ibidem). Dal punto di vista strettamente linguistico, «La parola paṇi significa mercante, trafficante, derivata da paṇ, come pure da pan (cfr. il tamil paṇ e il greco ponos, lavoro; inoltre, abbiamo i nomi antichi degli organi d’azione, pāṇi, la mano, il piede e lo zoccolo; latino penis); possiamo pertanto considerare i Paṇi come i poteri che presiedono a quelle attività sensoriali, ordinarie e non illuminate della vita, la cui origine immediata si trova nell’essere fisico subcosciente oscuro e non nella mente divina. Tutta la battaglia dell’uomo consiste nel sostituire questa azione con l’operato luminoso proveniente dall’alto» (Sri Aurobindo, ibid.).

Su questa medesima linea (in netto contrasto con le interpretazioni meramente naturalistiche), Tommaso Iorco, nella traduzione integrale del Ṛgveda da noi pubblicata, in una nota relativa all’inno 26 del secondo Ciclo (a pag. 440), precisa quanto segue: «Proseguendo le riflessioni riguardanti la scoperta, da parte di Brahmaṇaspati, della caverna dei Paṇi, molto si è congetturato su questi ultimi, trascurando in modo davvero imbarazzante l’evidenza simbolica fondamentale: per i ṛṣi, essi erano forze ostili al progresso, occultatori della luce spirituale. Ciò non esclude affatto che, in epoca tardo-vedica o post-vedica, questo titolo possa essere stato affibbiato, con evidente disprezzo, a tribù nomadi con le quali gli hindu dell’epoca entrarono in contatto e che essi considerarono poco civilizzate o, in una qualche misura, irriguardose nei confronti della cultura vedica — una simile evenienza pare anzi assai probabile e comprensibile; e, in questa ottica, le ipotesi più accreditate collegano i Paṇi con alcune etnie prācya indiane, il cui esodo potrebbe aver dato vita ai Peoni (da cui si ipotizza possano provenire i cartaginesi o i fenici) o ai Parni (tribù iranica da cui potrebbero essere derivati i babilonesi).»

Alle suddette indicazioni, desideriamo aggiungerne qui una ulteriore, che può completare il quadro — o, per lo meno, aggiungere un tassello.

Filostrato, nella sua meravigliosa “Vita di Apollonio di Tiana” (elaborata principalmente sulle testimonianze di Damis), riporta il lungo viaggio del Tianeo in Oriente, intrapreso allo scopo di conoscere e confrontarsi con i saggi dell’India. A un certo punto della narrazione (nel Libro Terzo), oltrepassato l'Indo, viene descritta la “collina dei saggi” — o, come viene altrimenti detto, “il castello dei saggi” —, con queste parole: «La collina su cui sono insediati i saggi, a quanto viene riferito, è alta all’incirca come l’Acropoli di Atene, e si eleva dalla pianura circostante; è attorniata da ogni parte dalla roccia, la quale offre una fortificazione naturale.

In diversi punti di tale roccia si notano alcune impronte biforcute, come pure tracce di barbe e di volti (talvolta pure di dorsi) di persone cadute. Si narra infatti che Dioniso, quando insieme a Eracle tentò di impadronirsi del luogo, ordinasse ai Pani di assalirlo, pensando che fossero in grado di reggere alla scossa; ma essi, fulminati dai saggi, caddero tutti — chi in un modo, chi in un altro —, e nelle pietre rimasero impresse le figure rappresentanti la loro sconfitta.» (III.13).

Questo resoconto, la cui storicità è alquanto dubbia, offre tuttavia interessanti stimoli di approfondimento.

Lasciando da parte la spedizione di Dioniso accennata nel passaggio in questione (richiederebbe troppo tempo e ci porterebbe fuori dal nostro argomento; ci limitiamo a ricordare che Dioniso, per gli antichi Greci, era un dio di origini orientali e, per la precisione, indiano — sarebbe il Dio-di-Nysos, vale a dire Διόνυσος, per l’appunto), è risaputo che il dio Pan era sovente considerato parte della coorte di Dioniso (insieme ad altre creature semiferine, come satiri e sileni); Pan, come è noto, viene raffigurato con caratteri teriomorfi (barba, corna, zampe di capra). Nel passaggio citato, quindi, i Pani sarebbero esseri elementali emanati dal dio Pan, o comunque a lui correlati.

Perciò, come si vede, anche i Greci riproposero, a loro modo, l’immagine simbolica dei Pani quali creature appartenenti al mondo ctonio che cercarono — invano — di prendere d’assalto il castello dei saggi.


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