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Datazioni rigvediche



Ci viene rivolta sempre più frequentemente una domanda che possiamo sintetizzare in questo modo: secondo voi, quando venne realmente composto il Ṛgveda? E, si badi bene, abbiamo appositamente utilizzato la parola "composto" in luogo di "scritto", perché è noto e riconosciuto il fatto che il Ṛgveda esisteva prima dell'invenzione della scrittura, tramandato oralmente per un certo lasso di tempo.


Il parere degli studiosi moderni (occidentali) differisce notevolmente da quanto attesta la più antica tradizione. Ma se la tradizione non offre alcuna prova di certezza documentata, il parere degli studiosi è del tutto inaffidabile, viziato da pregiudizi, sciovinismo, errate deduzioni e altro ancora.


Dunque, non esiste alcuna risposta certa? Dipende a quale tipo di certezza ci si riferisce. La certezza oggettiva giunge solo dopo avere individuato, vagliato, incrociato e organizzato una serie di prove interdisciplinari inconfutabili, che attualmente non esistono (o solo in minima parte). La certezza soggettiva si basa su esperienze interiori che, se genuine, autentiche e sincere, presentano un carattere indiscutibile per chi le riceve, ma solo per costui.


Sri Aurobindo ricevette per vie interiori parecchie indicazioni relative al Ṛgveda. Non solo per quanto concerne il reale significato degli inni, ma anche a proposito dei poeti-veggenti rigvedici e al tempo in cui vissero. Ovviamente, essendo indisposto a creare dogmi, non ne fece menzione direttamente, sebbene si possano intravedere, qui e là nei suoi scritti, alcune tracce indicatrici decisamente luminose e pregnanti.


Gli stessi veggenti rigvedici, peraltro, fanno espressamente riferimento a generazioni di ṛṣi di gran lunga antecedenti a essi stessi: nel Ṛgveda viene operata una precisa distinzione, infatti, tra i ṛṣi antichi e i moderni, pūrvebhiḥ e nūtanaiḥ. I primi apparirono, già nei tempi vedici, talmente remoti da avere assunto forme mitiche di divinità o di eroi semidivini — quando non, addirittura, di capostipiti della specie umana, pūrve pitaraḥ manuśyāḥ.


Se poi volessimo soffermarci unicamente sul testo scritto, la datazione degli studiosi di cui sopra si basa sui primi volumi giunti fino a noi. Ma la tradizione assicura che il Ṛgveda venne per lungo tempo trascritto su foglie di palma, che per ovvie ragioni si usuravano rapidamente (nel volgere di pochi anni o decenni al massimo), ragion per cui ogni volta occorreva ritrascrivere l'intero testo su nuove foglie di palma. Chi può dire quanto durò quest'opera di ripetute trascrizioni? Nessuno storico, evidentemente. Eppure, gli studiosi occidentali continuano a sentenziare e a datare, dall'alto delle loro vane cattedre saccenti e sproloquianti. Invece di vergognarsi e di chiedere scusa per tutti i depistamenti creati con fanatico zelo colonialista e post-colonialista, continuano a propalare menzogne.


Per fortuna, un numero non irrilevante di poeti e di filosofi europei, a partire dall'Ottocento, ebbero modo di apprezzare la bellezza e la ricca spiritualità di tali antiche scritture e, pur non comprendendone a fondo il valore (le traduzioni non lo permettevano, deliberatamente, e Schopenhauer fu uno dei primi a denunciare una simile malafede da parte degli eruditi europei, nient'affatto disinteressata), poterono intuirne l'immensa profondità.


A ogni buon conto, è alquanto probabile che il Ṛgveda (magari non esattamente nella forma attuale, ma nemmeno troppo distante da essa) risalga a un precedente ciclo evolutivo, a una passata civiltà umana che, per un qualche motivo, è scomparsa dalla faccia della terra. L'ipotesi maggiormente accreditata è quella di una inondazione accorsa durante lo stadio terminale del periodo geologico definito con il termine di "Dryas recente", all'incirca 11.800 anni fa, in cui una serie di repentini mutamenti climatici causarono conseguenze disastrose per molti dei territori abitati dal genere homo nelle sue varie diramazioni, oltre all'estinzione di parecchie specie animali (i neanderthaliani pare siano scomparsi circa trentamila anni fa, ma dodicimila anni fa è probabile che fossero presenti sulla terra altre specie del genere homo, oltre al sapiens). Tra i 15.000 e i 6.000 anni fa, massicce inondazioni causate dallo scioglimento dei ghiacciai innalzarono il livello del mare, sommergendo vari territori costieri. Il geografo Patrick Nunn e la storica Margaret Cook dell'Università della Sunshine Coast in Australia hanno rivisitato in un recente articolo alcune leggende del nord Europa e dell'Australia che raffigurano l'innalzamento delle acque, le penisole che diventano isole e le coste che si ritirano durante quel periodo di deglaciazione. Alcune di queste antiche narrazioni, affermano i ricercatori, si riferiscono all'innalzamento storico del livello del mare realmente accaduto. Nunn ha raccolto 32 gruppi di storie di comunità indigene lungo la costa dell'Australia che sembrano riferirsi a cambiamenti geologici lungo le coste. Ad esempio, la leggenda di Garnguur, raccontata dal popolo Lardil (noto anche come Kunhanāmendā) nelle isole Wellesley, al largo dell'Australia settentrionale: viene descritta una donna-gabbiano, Garnguur, che tagliò le isole dalla terraferma trascinando una zattera gigante avanti e indietro attraverso una penisola. Nunn e Cook sostengono che la leggenda può essere presa come un ricordo di come, circa 10.000 anni fa, lo scioglimento dei ghiacciai causò la separazione delle isole Wellesley dalla terraferma. È interessante notare che esiste una cresta sottomarina tra due delle isole Wellesley, forse una caratteristica del fondale marino che ha suggerito l'immagine di Garnguur che ara la sua zattera nella terra, suggeriscono i due ricercatori. Separatamente, altri gruppi indigeni dell'Australia meridionale, come i Ngarrindjeri e i Ramindjeri, raccontano di un periodo in cui Kangaroo Island era un tempo collegata alla terraferma. Alcuni dicono che sia stato interrotto da una grande tempesta, mentre altri descrivono una linea di massi parzialmente sommersi che un tempo consentivano alle persone di attraversare l'isola. Anche per Jo Brendryen, un paleoclimatologo dell'Università di Bergen in Norvegia che ha studiato gli effetti della deglaciazione in Europa dopo la fine dell'ultima era glaciale, l'idea che le storie orali tradizionali conservino resoconti reali dell'innalzamento del livello del mare è perfettamente plausibile. Analogamente, Tim Burbery, esperto di geomiti alla Marshall University in West Virginia, conferma che «queste sono storie basate su traumi conseguenti alla catastrofe». Durante l'ultima era glaciale, sostiene Brendryen, l'improvviso scioglimento delle calotte glaciali ha indotto eventi catastrofici noti come impulsi di acqua di fusione, che hanno causato un innalzamento improvviso ed estremo del livello del mare. Lungo alcune coste europee, l'oceano potrebbe essersi alzato fino a 10 metri in soli 200 anni. I pochi superstiti umani che riuscirono a mettersi in salvo, dovettero ricominciare la lenta evoluzione e, trovandosi in una situazione in cui le precedenti acquisizioni tecnologiche andarono perdute insieme a buona parte degli uomini che le inventarono e le padroneggiarono (e alle terre da essi abitate), tra le altre cose si trovarono a tramandare oralmente l'antico testo poetico-sapienziale del Ṛgveda, di generazione in generazione, finché fu possibile inventare un sistema di scrittura e di trascriverlo (o, forse, restituirgli nuovamente una forma scritta), dapprima su supporti facilmente deteriorabili (come si cennava) e poi, finalmente, su materiali più resistenti e duraturi.


Non dimentichiamo, inoltre, che gli storici non riescono a offrire resoconti accurati e precisi, vale a dire supportati da precise testimonianze, precedenti i 5.500 anni fa. Tutto quello che precede tale data, è frutto di supposizioni (talvolta ingegnose e degne di nota, ma comunque non accertate) sulla base di reperti archeologici, oppure si basa su miti e leggende popolari, che certamente contengono delle verità (come nel caso del "diluvio universale" appena menzionato), ma che non sono suffragate da prove sufficientemente documentate. La stessa datazione della scoperta della scrittura risulta sempre più controversa a mano a mano che le ricerche procedono. Chi scoprì (o riscoprì) la scrittura? Gli antichi Hindu appresero l'arte della scrittura da qualche altro popolo, oppure la svilupparono in modo autonomo? Ebbene, il rinomato epigrafista e storico Balwant Walawalkar, in collaborazione con l'archeologo Shridhar Wakankar, riuscì a dimostrare che la scoperta della scrittura, in India, avvenne in modo autonomo. Wakankar, esaminando antiche monete, sostenne che il tipo di scrittura più antica utilizzato per trascrivere il fu la cosiddetta "scrittura Mahesvari", e che soltanto in seguito venne soppiantata dalle altre due più note: la "scrittura Brahmi" e la "scrittura Nāgarī" (più nota come devanāgarī, che è tuttora in uso per il sanscrito).


Peraltro, nella Taittirīya Saṁhitā si narra che gli dèi, intenzionati a risolvere il problema legato all'estrema evanescenza del suono delle parole, che svanisce subito dopo che queste sono state pronunciate, si recarono presso Indra per chiedergli come potergli dare una forma. Gli dissero: vacanavya kurvit ("conferisci al suono una forma"). Fu così che Indra, con l'aiuto di Vāyu, inventò la scrittura.


I linguisti, negli ultimissimi decenni, hanno iniziato a individuare tracce precise del sanscrito in diverse aree del mondo, dall'Asia all'Europa, dal Medioriente alle Americhe: si principiò con le lingue antiche come il persiano, il greco, il latino, per poi estendere le scoperte all'arabo e, ancor prima, alle varie lingue regionali indiane (in particolare: hindi, gujarati, panjabi, marathi, telegu, malayalam, bengali, urdu, kannada e, di recente, tamil - quest'ultima considerata faziosamente e per troppo tempo dai colonialisti inglesi come una lingua non ariana, a dispetto di quanto Sri Aurobindo ha sempre affermato nei suoi scritti), quindi al celtico, al russo, allo slavo, al lituano, a varie lingue amerindie precolombiane (nāhuatl e maya in particolare), fino a comprendere lingue più moderne: dall'antico germanico al tedesco, l'albanese, l'inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese, oltre al nostro italiano (attualmente, le lingue riconosciute come indoarie sono 439). Le scoperte sono tali da spingere qualche studioso a supporre che il sanscrito sia stato, in tempi antichissimi (presumiamo noi, precedenti il "Dryas recente"), l'unica lingua parlata al mondo o, comunque, la principale. Talvolta, tale lingua originaria viene chiamata "proto-indoeuropeo". Uno dei più grandi linguisti del mondo, Franz Bopp, affermò che il sanscrito, un tempo, fu la sola lingua parlata in tutto il mondo (vedi la sua Edinborough Review - vol. XXXIII, pag. 43). Thomas Maurice, curatore dei sette famosi volumi "Indian Antiquities", nel quarto volume cita l'affermazione del primo studioso europeo di sanscrito, tale Halhead: «pare che il sanscrito sia stato il primo linguaggio del mondo». Nell'Ottocento, Vans Kennedy sosteneva che «il sanscrito è il linguaggio primevo da cui sono scaturiti il greco, il latino e le lingue germaniche». Jules Michelet era convinto che i Veda fossero «senza dubbio alcuno i primi monumenti letterari del mondo» e che l'India illuminò il mondo intero. Victor Stevenson, nel suo libro Words: The Evolution of Western Languages, sostiene che parecchie lingue europee derivano dal sanscrito.


In India è nota la divisione del tempo in grandi cicli detti yuga, che dall'attuale kaliyuga, risalgono (andando a ritroso nel tempo) fino al satyayuga. Sri Aurobindo: «In base alla teoria hindu degli yuga, è durante il Dvāpara-yuga che tutto viene codificato, ritualizzato, formalizzato. Nel Satya-yuga il Divino discende tra gli uomini in forma di Yajña, rappresentante lo spirito di adorazione e sacrificio e, durante il Satya-yuga, Yajña regna nel cuore degli uomini, senza alcuna necessità di rituali esteriori, celebrazioni sacrificali esterne, elaborati codici di norme, di governo, di caste, di classi sociali, di credo: gli uomini seguono il dharma in base alle necessità della loro natura purificata e della loro conoscenza compiuta; il regno di Dio e della Conoscenza (Veda) è nel cuore dei suoi aderenti. Nel Tretā-yuga la perfezione dell’antico ordine si spezza e il Divino discende in forma di cakravarti rāja (guerriero e legislatore), sicché la spada, la legge e il Veda scritto vengono istituiti in modo da governare gli uomini; permangono tuttavia una complessiva elasticità e libertà e, entro certi limiti, gli uomini seguono gli impulsi benèfici della loro natura, la cui primigenia purezza è solo lievemente alterata. È nel Dvāpara-yuga che il formalismo e la regola rimpiazzano l’idea e lo spirito quali reali agenti sociali; il Divino giunge come Vyāsa, il grande codificatore e ordinatore della conoscenza. Il compito del Kali-yuga è di distruggere e mettere in discussione ogni cosa, affinché possa essere stabilita — dopo un conflitto tra le forze dell’equilibrio e quelle del disordine — una nuova armonia di vita e di conoscenza in un successivo Satya-yuga.» (Kena and Other Upanishads).


Concludiamo con una citazione che si trova fra le molte note accorrenti nel volume del Ṛgveda di nostra pubblicazione: «Eminenti studiosi (tra cui l'eccellente Bal Gangadhar Tilak, per citarne almeno uno) scorgono nel Ṛgveda indicazioni che la patria originaria degli Arii si trovasse nelle regioni circumpolari artiche (in un’epoca interglaciale risalente a ben più di dodicimila anni fa, nel mitico Satya-yuga): solo lì, infatti, agli occhi di un osservatore terrestre, le costellazioni si muovono nella volta celeste su piani orizzontali, «come ruote di un carro» (X.LXXXIX.2) o «come ruote sull’asse» (X.LXXXIX.4); anche il presocratico Anassimene pare sostenesse che, in tempi antichissimi, il moto degli astri fosse paragonabile alla «rotazione del cappello di un uomo intorno alla sua testa» (citazione di Ippolito, in ‘Philosophumena’, I.VII.6): ulteriore possibile riferimento, da parte di un indoeuropeo di ben altra latitudine, di una dimora artica primeva. Dopo la distruzione di questa sorta di artico Eden, causata dall’ultima glaciazione, gli Arii si sarebbero trovati costretti a migrare verso l’equatore (circa diecimila anni fa, nel Tretā-yuga) in cerca di terre abitabili, giungendo a stanziarsi nell’ampia area presso il fiume Sarasvatī (India nord-occidentale e Iran), nel periodo in cui l’equinozio di primavera si trovava nella costellazione dei Gemelli o Yāmaka (Punarvasu), circa ottomila anni fa — è “l’età delle peregrinazioni” indicata nello Aitareya Brāhmaṇa (VII.15). Quando invece l’equinozio di primavera si trovò nella costellazione di Orione, alias Mṛgaśirā (circa cinquemila anni fa — al tramonto del Dvāpara-yuga), iniziò la lenta penetrazione ariana nell’Asia centrale e in Europa (e oltre), dando inizio alla presente civiltà euroasiatica. In India, il graduale prosciugamento del fiume Sarasvatī (iniziato nei tempi in cui l’equinozio di primavera si trovava nella costellazione delle Pleiadi/Kṛttikā, ca 3500 anni fa, nell’attuale Kali-yuga) rese a un certo momento inevitabile lo spostamento verso la pianura gangetica; il Taittirīya Saṁhitā, che principia la serie di nakṣatra (costellazioni) proprio con le Kṛttikā, appartiene a tale periodo, in cui avvenne pure la trascrizione delle quattro Saṁhitā vediche. In questo modo, sia pur approssimativamente, è stata tentata una ricostruzione dell’epica transizione dall’originale civiltà arya ante-diluviana alla civiltà indoeuropea post-diluviana. Se tutto ciò venisse suffragato da prove certe, resterebbe da capire fino a che punto il testo rigvedico a noi pervenuto corrisponda alle forme del linguaggio originario dei mitici padri antidiluviani, i naḥpūrve pitaraḥ, gli avi primordiali sovente evocati nel Ṛgveda, il cui passaggio terrestre alcuni fanno risalire nientemeno a ottantamila anni fa (ovvero, in una data antecedente la maxi-eruzione del supervulcano Toba, avvenuta settantatremila anni fa), nel corso di un precedente Kṛta-yuga.».



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