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IL MONDO ACCADEMICO E IL ṚGVEDA


«Le convinzioni, più delle bugie, sono nemiche pericolose della verità.»
F. Nietzsche


Il mondo accademico (ovvero, il portavoce culturale ufficiale del potere costituito che ha dispoticamente dominato il mondo nell'ultimo millennio e che ancora vorrebbe dominarlo, pur essendo ormai in fase avanzata e certa di crollo, per buona pace del mondo intero) è fortemente europocentrico: il che significa che nel corso dei secoli ha cercato (con successo, purtroppo) di convincere l'umanità che l'Europa e il vicino Medioriente (e, per successiva conseguenza, l'America) rappresentano la culla della civiltà attuale e che l'area "occidentale" è quindi da considerarsi come il centro del mondo. Ormai, evidenze contrarie inconfutabili sono emerse da varie parti del globo: dall'India alla Cina, dalle Americhe all'Australia. Ciò nonostante, la maggior parte degli accademici, per motivazioni biecamente scioviniste e nell'ormai vano tentativo di protrarre una invadente e inopportuna egemonia culturale e sociale, si ostinano a far finta di non vedere o, addirittura, denunciano come false alcune tra le più importanti scoperte archeologiche degli ultimi decenni — il più delle volte, mentono sapendo di mentire. Per nostra fortuna, vi sono studiosi (compreso qualche raro accademico onesto, fuori dal coro: citiamo per esempio l'illustre Massimo Vidale, professore di Metodologie della ricerca archeologica nell’Università di Padova, nonché membro del Consiglio direttivo dell’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente) che cercano di fare emergere la realtà effettiva. François Desset (allievo del prof. Vidale), qualche anno fa (la notizia è stata resa ufficiale tra il 2017 e il 2020), ha decodificato un'antica lingua conosciuta con il nome (posticcio) di "Elamita lineare": una paleo-scrittura rinvenuta in alcuni scavi effettuati in area iraniana, risalente ad almeno quattromila anni fa, non riconducibile ad alcuna forma semitica di linguaggio. I vecchi soloni, per contro, si ostinano a dire che non si tratta di una scrittura vera e propria (tanto per non fare nomi, citiamo l'assirologo Jakob Dahl dell'università di Oxford). Qualcosa di analogo è avvenuto con le numerose tavolette della civiltà dell'Indo-Sarasvati: Steve Farmer, ricercatore famoso in tutto il mondo, sentenziò che «le popolazioni dell'Indo erano analfabete, la loro scrittura è un oscuro sistema simbolico privo di valore fonetico e simbolico». Giudizio (ridicolo, offensivo, irragionevole e ormai dimostratosi falso) che egli estese senza scrupolo alcuno pure alle tavolette della civiltà di Jiroft: dichiarò infatti che si tratterebbe di «un numero irragionevolmente piccolo di segni in strane sequenze di simboli, [...] nient'altro che cerchi, triangoli e rettangoli». Si è perfino cercato di rintracciare nel Ṛgveda l'improbabile scontro fra indiani del nord (ariani) e indiani del sud (dravida), facendoli figurare come due distinte etnie, la prima di invasori (giunti dall'Europa, manco a dirlo), la seconda di autoctoni costretti a fuggire nel profondo sud (Tamil Nadu). Tutto ciò, ovviamente, non corrisponde a nulla di vero (l'India è un popolo appartenente a un'unica etnia), ma ebbe l'effetto desiderato del divide et impera.

Come sappiamo, l'invenzione della scrittura rappresenta un passaggio importantissimo nell'evoluzione dell'uomo; pertanto, il sistema imperante ha sempre cercato di attribuirsi tale invenzione come un qualcosa di monopolistico, a opera di Greci, Egizi e Sumeri. La realtà è ben diversa e incomincia ormai a essere sotto gli occhi di tutti coloro che hanno deciso di vedere. L'altopiano iranico ne è ormai una prova accertata, insieme alla Cina. Il Golfo Persico (importante tratto di connessione, nell'antichità, fra l'India e la Mesopotamia) prestissimo potrebbe costituirne un'altra. E non è escluso che tali invenzioni siano avvenute in modo autonomo nelle varie aree (mentre si era cercato di far passare la concezione secondo la quale le scritture iraniane fossero state importante dalla Mesopotamia e adattate agli usi locali).

Dopo la decriptazione dell'Elemita lineare di cui sopra, restano altre due scritture che, al presente, non sono ancora state decifrate: la scrittura Indo-Sarasvati dell'India (la più antica delle tre, risalente a circa 4500 anni fa) e la Lineare A (rinvenuta a Creta e risalente a circa 3800 anni fa).

Che cosa ha a che fare il Ṛgveda con tutto questo?

Ebbene, il vedico (ovvero, il linguaggio sopravvissuto unicamente nel Ṛgveda) è stato da tempo decifrato e lo stesso Ṛgveda integralmente tradotto. Eppure... Una voragine si apre a questo punto su questo "eppure"! Non abbiamo certo la pretesa di colmare tale baratro mediante il presente articolo, ma possiamo quantomeno cercare di sondarne la sua profondità abissale, pregando il lettore di tenere ben presenti le osservazioni fatte in apertura a guisa di premessa fondamentale, alle quali ne aggiungiamo ancora una, a corollario: l'invenzione della scrittura fu utilizzata da una piccola élite (mutato nomine, si tratta sempre dei soliti affetti da delirio di potenza, che si credono i padroni del mondo) per controllare e dominare le masse, lasciate il più possibile nell'ignoranza. Claude Lévi-Strauss fu il primo a riconoscere che la scrittura è un mezzo per schiavizzare le persone. Apparentemente essa sembrerebbe uno strumento di liberazione e di presa di coscienza (e per certi versi essa è anche questo o, per essere più precisi, potrebbe e dovrebbe esserlo per tutti e non solo per una ristretta cerchia di presuntuosi opportunisti), mentre in realtà (nella realtà storica, almeno finora — si auspica che le cose possano cambiare e la rotta invertirsi, ma ciò dipendendo dal collettivo umano, non c'è molto da aspettarsi in tal senso) è stata utilizzata come mezzo di coercizione del singolo individuo (se sprovvisto di mezzi e non sufficientemente avveduto) e, più in generale, delle masse (l'unione dei singoli lasciati il più possibile nell'inconsapevolezza, impedendo loro o alla meno peggio ostacolando lo sviluppo di una mente critica e delle facoltà di giudizio — non di rado, anzi, sopprimendole). Nel mondo contemporaneo tutto ciò è più vivo che mai, e lo si nota con particolare precisione dal 2020 (l'anno d'inizio della pandemenza) in avanti, in tutti i dipartimenti del cleptocratico totalitarismo liquido globale spacciato per liberaldemocrazia: dalla sanità alla politica, dalla magistratura all'economia, dalla religione alla scienza e tutto il resto (l'aforisma di Victor Hugo ha dimostrato tutta la sua tremenda verità: «C'è gente che pagherebbe per vendersi»).

E possiamo entrare finalmente nel merito della nostra domanda: che cosa ha a che fare il Ṛgveda con tutto questo? Ebbene, la tradizione attesta che il Ṛgveda venne tramandato oralmente per un numero imprecisato di tempo, e sappiamo che quando venne messo per iscritto fu utilizzata prevalentemente (ma non esclusivamente) la scrittura devanāgarī. Vi sono studiosi, però, che nei caratteri delle tavolette e dei sigilli della civiltà Indo-Sarasvati hanno riconosciuto — e riconoscono sempre più — parole vediche. Il prof. Netwar Jha, geniale paleografo, afferma di avere decifrato la scrittura Indo-Sarasvati e i risultati del suo lavoro sono in corso di verifica. Secondo i suoi studi, i sigilli della valle Indo-Sarasvati recherebbero parole ricorrenti nel Ṛgveda come ad esempio indraḥ, atri, bhaga, arka, kaśyapa, bhadra, aśva, apaḥ, dāśaḥ, agniḥ, dvār, īśvar, ahiḥ, ṛg, gnā, āsāt, amatra, mṛtyuḥ, ratha, vṛkṣ, kartaḥ, āptyāḥ, yama, kṛpā, soma, e perfino parole più complesse come dadhikrāḥ, sahasradhā, aryamā, pūrvāśā, narottamaḥ, e una consistente quantità di altri vocaboli rigvedici. Mentre, sul retro di tali sigilli, si trovano di frequente quelli che noi chiamiamo 'numeri romani', come V, VI, VII, VIII, VIIII.

Inoltre, la cosa ancora più importante da constatare sta nel fatto che le varie traduzioni del Ṛgveda, a partire dai primi grammatici sanscriti fino ad arrivare ai moderni orientalisti e linguisti, sono state tutte quante frutto di interpretazioni (le più svariate, peraltro). L'unica traduzione che noi riteniamo corretta e priva di sovrapposizioni interpretative è per l'appunto quella (non integrale, per mancanza di tempo) effettuata da Sri Aurobindo. Nella traduzione italiana integrale del Ṛgveda pubblicata dalla nostra casa editrice e realizzata da Tommaso Iorco, sono state pertanto seguite le linee-guida tracciate da Sri Aurobindo.

Come risulta ben chiaro ai linguisti (e come sottolinea, tra gli altri, il prof. Paolo Garbini dell’università La Sapienza di Roma), quando si affrontano lingue antiche, neppure l’accordo di tutti gli studiosi del mondo è garanzia di certezza. Affermazione ancor più veritiera quando ci si confronta con la lingua vedica, la più antica in assoluto a noi pervenuta, peraltro attraverso un unico documento: il Ṛgveda, per l'appunto. In che modo ha potuto dunque Sri Aurobindo svelare il senso nascosto del Ṛgveda e, per conseguenza, cogliere il significato autentico del linguaggio vedico? Pur essendo un linguista raffinato, profondo conoscitore di alcune fra le lingue più antiche del ceppo indoeuropeo — sanscrito, latino, greco e, in parte, germanico e tamil —, nel caso del vedico egli non ha seguito il metodo consueto del linguista (o, meglio, lo ha utilizzato unicamente per rendere le proprie scoperte intelligibili a noi tutti): piuttosto, si è affidato quasi esclusivamente alle indicazioni ricevute per vie interiori.

Nessuno sa quando nacque la lingua vedica, a causa del fatto che il Ṛgveda esisteva ben prima dell’invenzione della scrittura e che venne tramandato oralmente per un periodo imprecisabile di tempo. Gli specialisti sono ormai unanimemente consapevoli del fatto che si tratti di una lingua eccezionalmente antica, che resistette all’incirca fino al V secolo a.C., quando venne progressivamente soppiantata dal sanscrito classico, con l’emergere della mistica vedānta che, pur scaturita direttamente dalla vedica e presentando quindi notevoli affinità, se ne distacca in alcune specificità, segnando il passaggio dall’età dei misteri, all’età della metafisica di stampo via via sempre più intellettuale. Non a caso, il linguaggio poetico è stato progressivamente soppiantano da quello della prosa. Vi è pure da tenere presente il fatto che l’invasione del re persiano Dario I causò lo spostamento a est dei regni indoarii, quindi verso la pianura gangetica, determinando mutamenti anche culturali. A questo periodo risale l’ammirevole grammatica sanscrita di Pāṇini, lodata da tutti i linguisti del mondo per chiarezza e concisione.

Nei suoi preziosissimi appunti di linguistica rigvedica, Sri Aurobindo ebbe a notare quanto segue: «Quando risaliamo alle lingue primigenie veniamo colpiti dal fatto illuminante che, nelle forme più fondamentali, un singolo monosillabo veniva impiegato allo stesso modo come nome, aggettivo, verbo e avverbio e che l’uomo, nel suo primo uso del linguaggio, probabilmente non faceva nella sua mente quasi nessuna distinzione consapevole tra questi varî usi. Troviamo la parola vṛka, nel sanscrito moderno, usata esclusivamente come termine per indicare il lupo; nel Veda significa semplicemente l’atto dello sbranare o il laceratore, viene impiegata indifferentemente come nome o aggettivo, e perfino nel suo uso come nome ha molte della libertà di un aggettivo e può essere utilizzata liberamente per designare un lupo, un demone, un nemico, una forza distruttiva o qualunque cosa che dilania. Troviamo nel Veda che, sebbene ci siano forme avverbiali corrispondenti all’avverbio latino in ē e in ter, l’aggettivo stesso è usato continuamente come un aggettivo puro, ma anche in relazione al verbo e alla sua azione, cosa che corrisponde al nostro uso moderno degli avverbî e delle frasi avverbiali o preposizionali, o frasi avverbiali subordinate. Elemento ancora più notevole, troviamo nomi e aggettivi frequentemente usati come verbi con un oggetto all’accusativo, dipendente dall’idea verbale contenuta nella radice. Siamo preparati, di conseguenza, a scoprire che nelle forme più semplici e primarie della lingua arya l’uso di una parola era piuttosto fluido, e che una parola come cit, per esempio, poteva egualmente significare conoscere, il conoscere, egli conosce, il conoscitore, la conoscenza oppure conoscendo, ed essere utilizzata dal parlante senza nessuna idea distinta dell’uso particolare che egli stava facendo del vocabolo flessibile. Inoltre, la tendenza alla fissità delle lingue moderne, la tendenza cioè a usare parole come semplici marcatori e simboli di idee, e non come entità viventi esse stesse genitrici del pensiero, crea una propensione a limitare rigidamente l’uso di una singola parola in molti sensi diversi e, anche, a evitare l’uso di molte parole diverse per l’espressione di un singolo oggetto o idea. Quando abbiamo la parola sciopero per indicare una volontaria e organizzata astensione dal lavoro, siamo soddisfatti; saremmo imbarazzati se dovessimo scegliere tra questa e altre quindici parole ugualmente comuni aventi il medesimo significato; ancora di più ci sentiremmo imbarazzati se la stessa parola potesse significare colpo, raggio, rabbia, morte, vita, oscurità, rifugio, casa, cibo e preghiera. Tuttavia, è esattamente questo il fenomeno (notevole e illuminante, reitero) che ritroviamo nell’antica storia del linguaggio. Già nel sanscrito più tardo la ricchezza di significati apparentemente non connessi a partire da una singola parola è sporadica, ma è molto meno sporadica nel vedico e presenta un serio ostacolo per ogni tentativo da parte dei moderni di fissare l’esatto e indiscutibile significato degli inni degli arii. Offrirò la prova, in questo lavoro, per dimostrare che in lingue primigenie la libertà era molto più grande, che ogni parola non soltanto in via eccezionale, ma comunemente, era suscettibile di numerosi significati diversi e ogni oggetto o idea poteva essere espresso da parecchi termini differenti (addirittura fino a cinquanta, non di rado), ciascuno derivato da una diversa radice. Per il nostro modo di pensare, un tale stato di cose sarebbe semplicemente una confusione priva di legge, che nega l’idea di ogni regola del linguaggio o di ogni possibilità di una scienza linguistica; ebbene, dimostrerò che questa straordinaria libertà e flessibilità derivarono inevitabilmente proprio dalla natura del linguaggio umano nelle sue origini e come risultato peculiare delle norme che presiedettero il suo iniziale sviluppo.» (da L’origine del linguaggio, La Calama editrice).

Nei suddetti appunti linguistici, non di rado Sri Aurobindo rintraccia le radici vediche contenute nel sanscrito — come pure nel greco, nel latino, nel tamiḻ. Il vedico differisce dal sanscrito classico in misura pressappoco paragonabile alla differenza esistente tra il greco omerico e il greco classico. Quindi, le differenze sono considerevoli, al punto da considerarle due lingue distinte (come il greco antico e il moderno).

Elenchiamo brevemente alcune fra le principali differenze grammaticali intercorrenti fra vedico e sanscrito:

  • Il vedico aveva una fricativa bilabiale sorda (chiamata upadhmānīya) e una fricativa velare sorda (chiamata jihvāmūlīya), che ricorrevano come allofoni di visarga () — rispettivamente, prima della labiale sorda e delle consonanti velari. Entrambi si sono persi nel sanscrito classico per lasciare il posto al semplice visarga. Upadhmānīya la si riscontra prima di ‘p’ e ‘ph’; jihvāmūlīya prima di ‘k’ e ‘kh’.
  • Le vocali ‘e’ e ‘o’ furono effettivamente realizzate in vedico come dittonghi [ai̯] e [au̯], ma divennero monottonghi puri ‘e’ e ‘o’ nel sanscrito classico, come ad es. daiva che diventa deva.
  • Le vocali ai e au furono utilizzate nel vedico come lunghi dittonghi ‘ai̯’ e ‘au̯’, ma divennero brevi nel sanscrito classico, come dyā, dyauḥ.
  • Le consonanti “dentali” erano probabilmente articolate appoggiando la punta della lingua alla radice dei denti (dantamūlīya, alveolare), ma divennero successivamente dentali pure — inclusa la ‘’, che in seguito divenne una consonante retroflessa.
  • Il vedico contemplava un accento tonico che poteva perfino cambiare il significato delle parole, ed era ancora in uso ai tempi di Pāṇini, come possiamo dedurre dal suo utilizzo di dispositivi per indicarne la posizione; oggi, l’accento del tono può essere udito solo nei canti vedici tradizionali.
  • Poiché un piccolo numero di parole nella tarda pronuncia del vedico reca la cosiddetta “svarita indipendente” su una vocale corta, si può sostenere che il tardo vedico fosse marginalmente un linguaggio tonale; nelle versioni metricamente restaurate del Ṛgveda quasi tutte le sillabe che portano una svarita indipendente devono tornare a una sequenza di due sillabe, la prima delle quali ha un udātta e la seconda una svarita dipendente. Quindi, il vedico doveva essere originariamente non una lingua tonale come il cinese, bensì una lingua con accento tonico come il giapponese — caratteristica, questa, tipica dell’accento protoindoeuropeo.

Ma la differenza principale, come per l’appunto Sri Aurobindo pone chiaramente in evidenza, consiste nel significato accordato ai vocaboli (sulla base delle radici primarie e secondarie da cui essi derivano). L’evoluzione del linguaggio umano procede necessariamente in direzione di una progressiva riduzione dei significati di ciascun vocabolo, in modo da disporre di una lingua sempre più precisa dal punto di vista razionale e intellettuale. Questo processo, tuttavia, va a discapito di quel “polisemantismo del linguaggio” che determina invece la ricchezza vitale, espressiva, poetica di una lingua. Più una lingua diventa matura, più si fa precisa e rigida. I parlanti si concentrano sempre più sul significato e sempre meno sulla vibrazione, sulla pura forza sonora di ciascun fonema.

Non a caso, per tornare all’argomento del presente articolo, non disponiamo di alcun testo post-vedico avente l’indicazione degli accenti ritmici (diversi, come è ben noto, dai semplici accenti tonici delle parole). Nel caso della lingua vedica, notiamo che le vocali pluti (trimoraiche) erano sul punto di essere fonemizzate durante il vedico medio, ma scomparvero nel sanscrito. I vedici spesso permettevano che due vocali simili si unissero nello iato senza fusione mediante saṁdhi, possibilmente attraverso una ‘h’ laringea, come bháas-bháhas che diventa bhā.

Offriamo un esempio per mostrare come Sri Aurobindo illustra i vari passaggi dal vedico alle varie lingue indoeuropee seriori (per semplificare, traslitteriamo i caratteri devānāgarī utilizzati da Sri Aurobindo, che invece nel volume citato sono stati riportati fedelmente): «L’antica enclitica it, affine a at (latino et) e a ut (latino ut), avente significato di: quello (latino id), anche, e, infatti, invero, lo stesso (latino idem). Nel primevo linguaggio arya, a, i, u erano con ogni evidenza impiegati come pronomi dimostrativi: i con la valenza di questo qui accanto a me, a questo un po’ più distante, u quello là. Riscontriamo esattamente tale impiego nel tamiḻ: — pronomi dimostrativi in cui è eufonico e onorifico; così pure i tre termini vengono liberamente impiegati per determinare altri pronomi e avverbî. Analogamente, in sanscrito troviamo ayam, iyam, ove y è eufonico e am descrittivo (come in vayaṁ, ava); iva, ati, iti, ataḥ, itaḥ, eccetera. In latino troviamo le due forme ille e olle, per non parlare delle suggestioni presenti in aliquis ecc.; nei comuni pronomi dimostrativi abbiamo is, ea, id, aḥ, iḥ, uḥ paiono essere state le forme maschili, mentre at, it, ut, o ad, id, ud, quelle neutre. Tali forme neutre vennero in seguito utilizzate unicamente come avverbî enfatici, proposizioni o congiunzioni. In modo analogo, troviamo a, i, u usati di per sé come particelle enfatiche, oppure uniti a neutri avverbiali, come in iti, ati. In sanscrito abbiamo it, uta, ati, iti; in latino at, et, ad, ut, uti; in greco éti, che corrisponde indubbiamente al sanscrito ati, nel significato di altresì, inoltre, encore [francese: ancora]. Uta risulta enfatico, con qualcosa del significato di “certamente”. It corrisponde al successivo eva. Sa it equivale a sa eva. Inoltre, it si trova pure in ittha, idā, idānīm. Iti è it, successivamente enfatizzato e impiegato per contraddistinguere la citazione di un discorso riportato o per colmare il posto che in inglese [e in italiano] è stato assunto dalle virgolette.» (ibidem).

Infine, non può mancare qualche esempio teso a mostrare le implicazioni di tali studi nello svelare il senso segreto del Ṛgveda. Nel primo esempio, Sri Aurobindo illustra il significato del termine vedico anarvā — «Il senso esatto di anarvā ritengo sia stato perduto; non significa “che non combatte” e, per conseguenza, in alcuni casi, “privo di nemici”: non è da intendersi an + arvan: [a privativa + nemico]. La radice ar esprime eccellenza, forza o preminenza di qualsivoglia tipo, indifferentemente dal fatto che essa si esplichi: (1) in essere, stato o posizione, (2) in azione, (3) in movimento, (4) in radiosità e splendore. Dal punto primo deriva l’accezione di eccellenza, virtù, nobiltà, signoria, onore, elevatezza, dirigenza, eminenza, presenti in arya, ārya, argha, arca, arha; nei vocaboli tamiḻ aran, aram (virtù), nei termini greci áristos, árgo, árchō, árchomai, áretḗ, óros [quest’ultimo significante] montagna. Dal secondo deriva il significato di lotta, uccidere o ferire, sopraffare, presente in ar, arva, arba, ard, ari; Ares, arāti; arma, araraḥ; e aratro, lavoro, remo, propulsione, riscontrabili in ar [“arare”], [nei termini latini] aro, arvum [arare, terreno coltivabile], [nei vocaboli greci] aróō, árotron, ároura, [“vomere”, “aratro”, “terreno coltivabile”], [e nei termini sanscriti] aritraṁ, araryati, [“remo”, “lavorare con una lesina”]. Dal terzo deriva il senso di movimento rapido, presente in ara, arv, [“lesto”, “fulmineo”]. Il principio di anarvā kṣeti si attua nel sādhaka per il quale Agni, signore del puro tapas, compie tutte le azioni dello yoga (il sacrificio interiore), ottiene una solida stabilità della siddhi (sādhati) e accetta di prendere in esso dimora (kṣeti) senza alcuna necessità di combattere; Agni distrugge tutte le potenze avverse, gli amīvā, e, grazie alla sua protezione (avas), impedisce qualunque ulteriore attacco.» (ibid.).

Nel secondo esempio, Sri Aurobindo delucida il vocabolo vedico śaṁso — «Altro termine fondamentale della psicologia vedica. L’esatto significato di śas è tagliare, lacerare; si usa per identificare movimenti, azioni, pressioni, sentimenti, ecc., che siano netti, rapidi e precisi. Riscontriamo śaś, balzare, śaṣ, ferire, nuocere, uccidere; śaṣkulī è il condotto uditivo dell’orecchio; śaspa, perdita della ragione; śas, squartare, uccidere, distruggere; śasanaṁ, śasti, śastraṁ, ecc.; śās punire, quindi regnare, governare, dominare, sottomettere, insegnare. Da questo significato basilare deriva il concetto di spuntar fuori, irrompere, come nel caso della germinazione di una pianta — per es., śāsya, frumento, grano —, da cui prese a significare espressione: espressione verbale, lode, ecc.; espressione dell’essere, espressione di sé, e da queste ultime accezioni scaturirono termini come śāstu, eccellenza, felicità, migliore, giusto; e śāstaṁ, il corpo. La forma nasale śaṁs reca i medesimi significati: ferire, nuocere, uccidere; lodare, esprimere, dichiarare, mostrare; eccetera. Le suddette radici indicano pure volontà, desiderio. La tradizione dell’antico significato vedico di “espressione” di un qualsivoglia elemento nell’essere, in seguito è andata scomparendo, mentre nel Veda è presente. È lecito tradurre śaṁso come lode, sebbene in determinati contesti sia più opportuno rendere con “espressione vigorosa”.» (ibid.).

Per il terzo e ultimo esempio (il più copioso tra quelli qui offerti) abbiamo scelto di riportare le riflessioni che Sri Aurobindo compie sul vocabolo vedico gaṇaḥ, e per rendere più chiara l’esposizione utilizza il seguente passaggio rigvedico:


yadīṁ gaṇasya raśanāmajīgaḥ śuciraṅkte śucibhirgobhiragniḥ |
āddakṣiṇā yujyate vājayantyuttānāmūrdhvo adhayajjuhūbhiḥ
||

Ṛgveda, V.I.3

Che, nella nostra traduzione, suona in questo modo –

Svolta la lunga schiera del suo seguito,
Agni risplende puro al puro Armento:
alle sue stesse Opere è aggiogata
e si fa piena; egli viene esaltato,
lei si stende supina e lui si nutre
di lei con le sue azioni fiammeggianti.

Ṛgveda (La Calama editrice).


«Quando in tal modo Agni srotola la lingua del godimento delle proprie schiere, yadīṁ gaṇasya raśanāmajīgaḥ, egli manifesta i suoi variegati poteri per una attività elevante e perfetta, ruśadadarśi pājaḥ [“che emette rutili lampi”, citazione della seconda strofe del medesimo inno] — il rosso essendo il colore simbolico che puntualmente designa l’azione e il godimento. Questo pājas, la potenza di Agni o la sua armata compatta, viene nuovamente descritto qui: gaṇasya raśanām, ma mentre l’idea contenuta nella seconda strofe riguarda una coorte non precisata, qui si tratta di [gaṇaḥ], la schiera dei poteri di Agni — la devatā [divinità] che si applica alla propria opera peculiare —, la quale pare manifestarsi in individualità raccolte in massa (sempre così si presenta la forza di gaṇaḥ), ciascuna con la sua lingua-di-fiamma che lambisce l’aere intermedio (surabhā u loke .. madhye iddhaḥ della sesta strofe), per gustare le energie e i piaceri vitali (aśva e ghṛtam) che supportano tale più elevata azione. Sostenuto da questa gioia e forza vitali, Agni opera, aṅkte agnir; ma il godimento non è quello di tipo impuro e privo di illuminazione tipico della creatura non elevata: esso è śuciḥ, puramente radioso, esente dai fumi delle pulsioni praniche non purificate — le sue fiamme attive, nella loro natura, sono pure fiamme di illuminazione, śucibhir gobhir. Per fare ricorso a un linguaggio moderno, quando la forza divina ci ha in tal modo purificati, le nostre attività e i nostri godimenti non sono più ottenebrati e tormentati dai desiderî vitali nebulosi che affliggono e si struggono nel tendere oscuramente verso una meta — tuttavia, non essendo ṛtajña [“conoscitori della verità”], non sanno che cosa perseguire, né come, con quali energie e mediante quali metodi e processi di sviluppo; la nostra azione si trasforma in pura illuminazione, al pari del nostro godimento; grazie alle illuminazioni divine quali loro forza motrice, essenza e strumentazione, i nostri atti e godimenti diventano compiuti. Possiamo ammirare la precisa, originale e raffinata arte poetica dello stilema vedico nel suo simbolismo, notando la scelta, in tale contesto, della magnifica parola go [“luce” e, al contempo, “vacche” — da noi tradotta costantemente con “vacche-di-luce], preferita sopra ogni altra, per descrivere le fiamme di Agni. Nel secondo emistichio, con pari raffinatezza di scelta, viene impiegata la parola juhū [“fiamma”, “lingua di fuoco”] per designare le medesime fiamme, in luogo di bhānu [“radiosità, “splendore”, “raggio di luce”] o di go. È in tale condizione di pura attività e godimento che la precipua azione esaltante di Agni viene esercitata: a quel punto (ād), la facoltà discriminante, dakṣiṇā, crescendo nella sostanza del proprio contenuto e dei suoi possedimenti, vājayantī, è aggiogata o si applica al proprio lavoro accettando tali nuove condizioni. Dakṣiṇā, la facoltà discriminante, è l’energia di Dakṣa, signore di viveka o giusto discernimento privo di errore, sebbene la sua assenza di errore risieda nel reame dell’Idea, in mahas o vijñanā, ove dimorano entrambi [Dakṣiṇā e Dakṣa], mentre nell’intelletto essa non è priva di errore, ma tesa verso il Vero e l’Esatto che stanno celati, al di là delle dualità mentali di bene e male, verità e falsità. Tale deputata e messaggera del ṛtam bṛhat [la vasta Verità], assisa in manas in quanto mente raziocinante, discernimento, intelletto, può raggiungere il proprio fine e adempiere la propria missione solo quando Agni, il Potere divino, si rende manifesto nel prāṇa e in manas, elevandoli al livello ideale della coscienza. Perciò essa viene descritta, in questa nuova attività, come tesa a ampliarsi e a estendersi verso l’alto, uttānām, in modo da seguire e raggiungere Agni laddove egli ha le sue più elevate fiamme, ūrdhva, nell’essere ideale. Da lassù, egli si cala in basso e la nutre, adhayaj, mediante le fiamme della propria attività divina, juhūbhiḥ, ardendo in quelle facoltà presenti nella mente intellettuale che aspirano a elevarsi. Questa relazione essenziale tra la forza divina e la mente purificata è delineata con un pensiero e una figura più completi nel primo emistichio del successivo ṛk [quarta strofe: agnimaccha devayatāṁ manāṁsi cakṣūṃṣīva sūrye saṁ caranti — «Le menti degli uomini che crescono | nella deità, interamente muovono | verso la Fiamma di Agni e il loro | sguardo converge in Sūrya illuminante»].» (ibid.).

Non a caso, è mediante il linguaggio poetico che i più grandi mistici dell’umanità si sono espressi, proprio perché permette loro di scavalcare la ragione per cercare di esprimere verità soprarazionali senza troppo imprigionarle entro le gabbie del pensiero logico, analitico, discorsivo.

La classe sacerdotale, in India, si è appropriata del Ṛgveda per farne il testo di base del loro predominio (in modo non molto diverso da quanto avvenuto nell'Europa medioevale con la Bibbia): la massa incolta doveva essere lasciata nell'ignoranza, e accettare supinamente l'interpretazione dei preti che, soli, avevano accesso alla lettura e all'esegesi vedica; il popolo doveva accettarne l'indiscutibile autorità. Come ogni altra società patriarcale diffusesi nel mondo negli ultimi due o tremila anni, le donne in particolare non avevano alcun diritto di leggere i testi vedici (e, ancor più a monte, cercando di escluderle dall'alfabetizzazione, così da non poter leggere alcun libro). La progressiva caduta di autorità del prete, culminata in Europa grazie all'Illuminismo, ha determinato il passaggio del potere dalle mani del prete a quelle dell'erudito. E gli eruditi (in India come in Europa) hanno preservato il medesimo spirito classista, retrivo e maschilista dei preti. Il Ṛgveda era per il brahmano un testo sacro e, per quanto frainteso, da trattare con il massimo rispetto; nelle mani dell'erudito, divenne ancor più lettera morta, seppur sempre meritevole di un certo rispetto, costituendo la base più ancestrale dell'edificio culturale che li rendeva potenti e prepotenti. Quando poi il testo giunse nelle aule universitarie d'Europa, avvenne un ulteriore degrado; ma, se non altro, permise al mondo intero di conoscerne l'esistenza. Fu a quel punto che Sri Aurobindo ne comprese il senso recondito e volle svelarlo a tutti. È risaputo che solo il simile è in grado di riconoscere il simile. Non stupisce pertanto che nessun linguista, nessun lessicografo, nessun intellettuale, nessun esegeta sia stato in grado di svelare il senso segreto del Ṛgveda: solo un Poeta-veggente della levatura suprema di Sri Aurobindo poteva compiere un simile miracolo. Come ammonirono gli stessi bardi rigvedici, la loro sublime poesia contiene...

«Parole arcane, saggezze di ṛṣi
che al veggente soltanto manifestano
il loro senso reale nascosto.»

Ṛgveda, IV.III.16 (ibidem).



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