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INNO RIGVEDICO SINOTTICO

[Ricavando alcune strofe da varî inni del Ṛgveda, ne abbiamo costruito uno (corredato di note esegetiche e linguistiche) teso a illuminare il senso esoterico dell’intera innodia.]


catvāri vākparimitā padāni tāni vidurbrāhmaṇā ye manīṣiṇaḥ |
guhā trīṇi nihitā noṅgayanti turīyaṁvāco manuṣyā vadanti ||
1 ||     [I.164.
45 (triṣṭup)]


Quattro i passi della dea Parola
— li conoscono i saggi: tre celati
nella cava occulta, mentre il quarto
è l’ordinario linguaggio dell’uomo.


catvāriquattro
vāk Parola (trattasi di una dea) [latino vox]
parimitāmisurati
padāni passi [pāda significa al tempo stesso raggio-di-luce]
tāniessi
viduḥ conoscono
brāhmaṇāḥ   officianti della parola sacra, conoscitori del brahman o mantra
ye da coloro
manīṣiṇaḥ pensatori (foggiatori del mantra)
guhācaverna, grotta, luogo nascosto, cuore
trīṇi tre
nihitā segreto
namentre
iṅgayantiprocedere, muovere (prendere le mosse)
turīyam quarto
vācaḥparola, linguaggio
manuṣyāḥ umano
vadantiè detto

Il linguaggio umano è l’ultimo grado (il più basso) di tutta una serie di ‘passi-di-luce’ della divinità della parola che, nel Ṛgveda, è nota con il nome di dea Vāc. Il veggente vedico ne identifica quattro principali, che il mistico tantrico Abhinavagupta riprenderà più tardi (nell’XI secolo dell’era moderna), conferendo a ciascuno precisi nomi e attributi. Al di sopra della ‘parola ordinaria’ (vaikharī, lett. “parola grossa”), egli distingue in tal modo una “parola mediana” (madhyamā), tipica del linguaggio poetico genuinamente ispirato; quindi, oltre ancora, esiste una “parola che vede” (paśyanti), dotata della visione delle verità che esprime; infine, il grado eccelso del linguaggio, detto per l’appunto paravāc, (la “parola suprema”, oppure śabdabrahman, la “parola dell’Assoluto”) è l’origine trascendente degli altri tre gradi e, pertanto, è inesprimibile da qualunque linguaggio esistente nella sfera della manifestazione.

I vati rigvedici sostengono che i loro mantra provengono dai piani più elevati. Sri Aurobindo, con una dovizia ancora maggiore a quella del mistico kashmiriano sopra citato, grazie alla sua personale esperienza identifica ulteriori livelli della parola, pertinenti a precisi piani di coscienza raggruppati sotto il termine comune di Overhead (lett. ‘al di sopra della testa’, ovvero estendetesi ben oltre la mente razionale umana, con il suo sia pur necessario linguaggio discorsivo e dialettico), descrivendoli e offrendo esempi sublimi attraverso la propria Opera poetica. Per un adeguato approfondimento di tali livelli, si veda il notevole saggio L’arte poetica di Tommaso Iorco, pubblicato nel 2016 presso la nostra casa editrice. Qui ci limitiamo a fornire i nomi che Sri Aurobindo diede ai livelli espressivi da cui deriva la serie ascendente dell’espressione mantrica: Higher Mind (“mente superiore”), Illumined Mind (“mente illuminata”), Intuitive Mind (“mente intuitiva”), Intuition (il reame della “intuizione” vera e propria), mental Overmind (“surmente mentale”), Overmind Intuition (“surmente intuitiva”), Supramentalised Overmind (“surmente sopramentalizzata”) e, all’apice, Overmind gnosis (“surmente gnostica”).


abhyavasthāḥ pra jāyante pra vavrervavriściketa |
upasthe mātur vi caṣṭe
|| 2 ||     [V.19.
1 (gāyatrī)]


Da uno strato ne nasce un altro, velo
dopo velo si apre alla Coscienza
di Conoscenza divina; nel grembo
della propria Madre, l’anima vede.


abhi strato
ava da
sthāḥ condizione di stabilità, stato d’essere
pra colmare, compiere
jāyante   nasce
vavreḥcopertura, velame
vavriḥ(idem c.s.)
ciketacoscienza [divina consapevolezza di cit]
upasthestare perfettamente e con adorazione
mātuḥmadre [la Grande Madre]
vicaṣṭe vedere, percepire, cogliere con precisione

L’intero Ṛgveda pone una speciale enfasi sulle “Madri” e, ancor più, sulla Madre Divina (oggetto della presente strofe) da cui esse tutte provengono — come pure ogni altra manifestazione: gli dèi e qualunque entità (uomo compreso), al pari dell’intero universo fenomenico (fin nella componente più materica) e di tutti i mondi visibili o invisibili, sono una emanazione della Grande Dea, la suprema Aditi. Se le Madri rigvediche rappresentano dunque le varie energie che — a diversi livelli di coscienza e aventi ciascuna distinte peculiarità intrinseche — nutrono l’infante che noi tutti siamo, in modo da farlo crescere verso uno stato di progressiva perfezione, la Madre suprema (da cui esse tutte derivano) è la Coscienza-Forza per antonomasia (cit-śakti), l’unica Dynamis dietro qualunque moto, l’eterna Energia trascendente che eternamente si manifesta nella formula universale che, in realtà, è una sua proiezione.

Ecco pertanto il veggente rigvedico cantare con il più vivo entusiasmo (dal greco ἐνθουσιασμός, ‘essere ispirato, essere acceso dal divino’) l’infinita progressione che ciascuna anima umana è destinata a compiere nel processo di svelamento di sé. Presa infine consapevolezza della propria vera origine, l’entità individuata comincia a “vedere compiutamente” (vicaṣṭe), vale a dire a realizzare di essere essa stessa un’eterna scintilla della grande Fiamma divina, calatasi nell’ignoranza cosmica per compiere l’Opus alchemico di trasformazione del ‘piombo’ in ‘oro’: è il grande sogno di conciliazione degli opposti, al fine di rendere “Cielo e Terra uguali e uniti” (yujante rodasi, come dice lo stesso Ṛgveda in VII.20.4), coniugare Spirito e Materia in modo da colmare l’abisso e abolire qualunque scissione, sia essa reale o apparente. Pertanto, lo scopo ultimo degli scopritori rigvedici — poeti nel vero senso della parola (dal greco ποιεω, ‘colui che fa’), che non si limitano a sognare, ma a realizzare nel concreto — è di condurre a compimento il grande Progetto cosmico, facendosi strumenti di quella stessa Coscienza-Forza da cui tutto deriva, la quale ha accettato (dall’incausato principio dei tempi) questa estrema precipitazione del Reale nelle forme materiali, questa immersione della suprema Coscienza negli abissi dell’Incosciente, questa Avventura nei meandri dell’Ignoranza cosmica, al fine di realizzare quella unità divina esistente nei cieli sopracoscienti dello Spirito assoluto, pure nell’apparente frammentazione di sé nella molteplicità inesauribile dei mondi del Divenire.

Livello dopo livello, velo dopo velo, all’anima veggente appare sempre più chiaro «il molto

che resta ancora da fare» (Ṛgveda, I.10.2 — yatsānoḥ sānumāruhad bhūriaspaṣṭa kartvam) in questa immensa opera di conquista. Occorre, anzitutto, riprendere consapevolezza dell’essenza più vera che pulsa in ogni essere e in ogni particella di materia. Per poi mettersi all’opera per svelare il Divino anche quaggiù (diversamente dalle spiritualità quietiste che, una volta attuata una simile presa di consapevolezza, cercano una via di fuga verso le altezze, lasciando il mondo nell’ignoranza), in modo da rendere l’Alto e il Basso un unico stato, fermamente stabiliti nell’essere che in realtà siamo, sthāḥ. È questa la Grande Opera da compiere.


ṛtena ṛtamapihitaṁ dhruvaṁ vāṁ sūryasya yatra vimucantyaśvān |
daśa śatā saha tasthustadekaṁ devānāṁ śreṣṭhaṁ vapuṣāmapaśyam ||
3 ||     [V.62.
1 (triṣṭup)]


Mediante il vero, la tua Verità
sempiterna è velata, dove vengono
sciolti i destrieri del Sole; insieme
i Diecimila là stanno; Quell’Uno
ho contemplato, il Dio degli dèi.


ṛtenamediante la verità
ṛtam la verità
apihitam nascondere, coprire, occultare
dhruvam stabile, inamovibile, saldamente stabilito
vāmtu, tuo
sūryasya del dio-Sole (Sūrya)
yatraviaggio, traguardo
vimucanti   sciogliere, liberare, sbardellare
aśvān destrieri
daśa śatādieci-cento (cioè a dire diecimila, nel senso di innumerevoli)
saha possenti
tasthuḥstazionare
tatquello
ekamuno
devānām degli dèi
śreṣṭham supremo
vapuṣāma meraviglioso
paśyamcontemplare, vedere

Tale passaggio rigvedico — di assoluta rilevanza per cogliere il senso segreto della sua poesia mistica — ispirò la seguente coppia di strofe contenuta nella Īśa Upaniṣad:

«Da un velo d’oro il volto del Vero | è celato; sollevalo, o Pūṣan,

per la legge del Vero e la visione. ||

O sommo Evolutore, unico Ṛṣi, | Rettore, Sole che illumina, Forza |

del Padre delle creature, raccogli | e organizza i Raggi della Luce; |

lo Splendore, che è la tua più bella | forma, è ciò che di te io contemplo; |

quel Puruṣa che è qui e ovunque, io sono» (15-16).

hiraṇmayena pātreṇa satyasyāpihitaṁ mukham |

tat tvam pūṣannapāvṛnnu satyadharmāya driṣṭaye || pūṣannekarṣe yama sūrya prājāpatya vyūha raśmīn samūha |

tejo yat te rūpaṁ kalyāṇatamaṁ tatte paśyāmi yo 'sāvasau puruṣaḥ so 'hamasmi ||

Nella terminologia di Mère e Sri Aurobindo, l’infinita massa delle verità esprimentesi sul piano ‘surmentale’ (Overmental), vela l’accesso alla Verità sopramentale (Supramental). Esiste infatti un piano di coscienza sovrarazionale, corrispondente in qualche modo all’iperuranio platonico, che Mère e Sri Aurobindo battezzarono con il nome di Overmind. Si tratta della vetta apicale della Mente cosmica, da cui gli innumerevoli raggi del Sole-di-Verità si diramano. La Verità assoluta è oltre, evidentemente: in quel Sole sopramentale che è la fonte di tutti i raggi; tuttavia, il surmentale è un dominio di magnifica luminosità gnostica, in cui tutte le verità (simbolicamente, tutti i raggi del Sole) esistono e da cui si diramano nelle sfere mentali, vitali e fisiche dell’universo a noi noto — al presente, purtroppo, deformandosi e creando ombre e rifrazioni distorte. Occorre risalire alla Luce delle luci, alla Verità da cui tutte le verità scaturiscono, ove i “destrieri del Sole” (vale a dire, i poteri dinamici della Verità) dimorano, affrancati e in gioiosa armonia. A quel punto, una volta colta l’unità d’origine di tutti i raggi-verità, si giunge a cogliere l’Essere supremo, unico e meraviglioso che informa tutti i livelli del Divenire universale. Ma questo non è che l’inizio dell’Opus: occorre guarire ogni possibile difetto visivo che impedisce di scorgere l’Uno nel Molteplice e, conseguentemente, rendere il Divenire una manifestazione sufficientemente chiara dell’Essere, senza più alcuna miscela deformante.


ka imaṁ vo niṇyamā ciketa vatso matérjayanata svadhābhiḥ |
bahvīnāṁ garbho apasāmupasthānmahānkavirniścarati svadhāvān ||
4 ||     [I.95.
4 (triṣṭup)]


Chi, tra di voi, s’è destato a conoscere
questa Cosa segreta, è l’Infante
che, col suo stesso Potere, dà nascita
alle sue Madri; l’Uno scaturisce
dal Grembo delle Acque primordiali,
il Veggente, l’Infante auto-nutrentesi.


ka chi
imaṁquesto
vo tra di voi
niṇyamāche risiede in segretezza
ciketaconosce
vatsoinfante
mātṛḥ le sue madri [simbolicamente, le energie che nutrono l’infante]
janayata genera
svadhābhiḥ   per mezzo del proprio potere
bahvīnāṁmolti
garbhogrembo
apasām acque
upasthān tramite il suo contatto
mahān grande
kaviḥ poeta-veggente
niścarati scaturire
svadhāvānauto-nutrentesi

Quanti pervengono alla realizzazione diretta delle radiose verità esposte nella criptica poesia rigvedica, è in grado di produrre una multiforme nascita divina in se stesso, tesa a rivelare l’Uno sia nel molteplice (nel divenire cosmico), sia nella propria ineffabile trascendenza. Perché l’Uno è al di là di tutto e, al tempo stesso, è tutto questo universo e informa ogni elemento esistente in esso: «Egli è l’Unico, il Signore [iṣa] di tutte le azioni» (sa viśvasya karuṇasyeṣa eko — afferma altrove il Ṛgveda: I.100.7). Nella poesia della Bhagavad-Gītā — come, in verità, già adombrato in alcune Upaniṣad — viene rivelata l’esistenza di un Puruṣottama, vale a dire un Puruṣa superiore sia all’Anima mutevole (kṣara puruṣa) sia all’Anima immutabile (akṣara puruṣa): è il ‘Supremo al di sopra del supremo’, parātparam, lo Uttama Puruṣa, per l’appunto — puruṣottama.

In questa strofe rigvedica sono presenti alcuni dei simboli maggiormente ricorrenti dell’intera innodia. Anzitutto, le Madri che, come ormai sappiamo, sono le energie cinetiche operanti alla realizzazione dell’Opus. L’aspetto dinamico della Realtà suprema, nel Ṛgveda, è alquanto enfatizzato, dato che rappresenta un complemento ineludibile al Puruṣa di cui sopra; nella successiva filosofia sāṁkhya, avverrà una netta scissione tra Puruṣa (l’Anima) e Prakṛti (la Natura), mentre nel Ṛgveda tali elementi costituiscono i due aspetti complementari di un’unica realtà: il suo aspetto maschile, per così dire statico (ma dal quale ogni moto trae sostegno) e il suo aspetto femminile, dinamico, responsabile della manifestazione cosmica (involutosi anzi in ogni elemento universale). Tutte le innumerevoli rappresentazioni della coscienza-forza dinamica, comprese le consorti degli dèi, nel Ṛgveda derivano dall’unica Grande Madre, Aditi, l’illimitata.

Quanto alle Acque, il discorso si fa assai più complesso. Per il momento, limitiamoci a segnalare che esse rappresentano i varî livelli dell’esistenza e che, pur costituendo un’infinita massa oceanica senza alcuna soluzione di continuità, vengono distinte in due grandi categorie: le Acque superiori e le Acque inferiori — vale a dire, l’emisfero dell’essere pertinente l’eterno Esistente nella sua dimensione assoluta (il saccidānanda vedantico), e l’emisfero del divenire con le sue gradazioni costituenti le fondamenta dell’eterno avvicendarsi universale.

Si veda, a proposito delle varie dottrine mistico-sapienziali citate, il saggio Dai Veda a Kalki, di Tommaso Iorco (pubblicato presso i tipi di aria nuova edizioni, 2003).


apāma somamamṛtā abhūmāganma jyotiravidāma devān |
kiṁnūnamasmānkṛṇavadarātiḥ kimūṁdhūrtiramṛta martyasya
|| 5 ||     [VIII.48.
3 (triṣṭup)]


Bevendo il Soma, come te immortali
divenimmo, la Luce raggiungendo
e trovammo gli dèi; che ci può fare
ora il mortale nemico, o Immortale?


apāma remoto
somam il dio della Beatitudine e la bevanda dell’immortalità
amṛtāḥimmortali
abhūma diventare
aganma raggiungere
jyotiḥ luce
avidāmatrovare
devāndèi
kiṁ cosa
nūnam dunque
asmāna noi
kṛṇavatfare
arātiḥnemico (lett. avido)
kiṁ come
ūṁ(particella interrogativa)
dhūrtiḥdanneggiare, fare del male
amṛta immortale
martyasya   mortale

Il Soma è, al contempo, il dio della Beatitudine divina (il grado vedantico di ānanda) e la mitica bevanda che rende immortali (conosciuta pertanto con il nome di amṛta — termine imparentato con il greco ambrotos—, il miele celestiale che permette agli umani scopritori del cammino di godere l’ebbrezza della Divinità in ogni dimensione dell’essere, ivi compresa l’intera natura fenomenica; interessante è pure notare come, nei Veda e nelle Upaniṣad, tale bevanda viene sovente apostrofata come madhu, il “miele” della delizia divina, non a caso indicando la suprema conoscenza con il nome di madhuvidyā). Una volta gustata tale pura gioia dell’Essere assoluto, le forze ostili che tentano in ogni modo di “danneggiare” lo scopritore della via verso l’immortalità, non possono più ostacolare. Le forze avverse al progresso della coscienza, essendo anch’esse parte dell’Uno-senza-secondo (ekamevādvityam), sono deformazioni di quella medesima Verità che tutto crea (vedico savitar): pur nell’incoscienza o nell’aperta ostilità della loro azione, collaborano al compimento dell’Opus, agendo da pungolo per le anime umane in crescita, avvolte nell’inerzia e bisognose di stimoli per risvegliarsi dalla loro letargia, in modo da riprendere coscienza dalla loro vera condizione di eterna e divina felicità.

Il Ṛgveda dedica tutto il nono Maṇḍala a invocare tale dio Soma, con una varietà e una molteplicità di approcci e di sfumature davvero mirabile e pressoché esaustiva. Il dio Soma è, potremmo dire, il Dioniso vedico: il vino della sua estasi è conservato nelle cantine delle nostre profondità subcoscienti; perciò, il ṛṣi si mette a ‘scavare’ nella materia, alla ricerca del “sole perduto”, fino al ritrovamento di mārtaṇḍa, il «sole che dimora nell’oscurità» (Ṛgveda, III.XXXIX.5), la coscienza divina nel cuore della materia. «I nostri padri trovarono il tesoro del cielo nascosto nella caverna segreta... Questo tesoro nella roccia infinita.» (Ṛgveda, III.CXXX.3).

È al fondo della materia, vale a dire nel corpo fisico, con i piedi ben saldi sulla terra, che i ṛṣi rigvedici furono in grado di trovare il ʻGran Passaggioʼ, mahas pataḥ: l’alto e il basso, questi due ‘firmamenti’ (rodasī), vengono trascesi e inclusi al tempo stesso nell’unico oceano di luce senza confini. Agni non è più «senza testa né piedi», come i primi inni rigvedici lo descrivevano, divinità che «nasconde i propri estremi» (Ṛgveda, IV.I.11), ma appare nella totalità del suo fulgore. In alto come in basso, tutto è un’unica rifulgenza dello Splendore divino. Quello soltanto esiste — tad ekam.


taṁtuṁ tanvanrajaso bhānumanvihi jyotiṣmataḥ patho rakṣa dhiyā kṛtān |
anulbaṇaṁvayata joguvāmapo manurbhava janaya daivyaṁjanaṁ ||
6 ||     [X.53.
6 (jagatī)]


Proteggete i Sentieri rifulgenti
aperti dal Pensiero; senza falle
tessete l’Opera dei grandi Vati;
l’essere umano dunque diventate,
il popolo divino generate;
aguzzate le Lance della Gnosi
per progredire verso l’Immortale.


tantuṁ tessere
tanvan in modo esteso
rajasaḥ appassionati
bhānum rifulgenti
anufine, sottile
ihiqui
jyotiṣmataḥ   appartenenti ai reami della luce (riferito ai grandi veggenti del passato)
pathaḥ sentieri
rakṣa aperti
dhiyā dal pensiero
kṛtānspade (gnostiche)
anulbaṇaṁ affilare
vayata approntati
joguvāmindefetto (oltre le tenebre mortali)
apaḥprogredire, procedere, avanzare
manuḥ umani
bhavadiventare
janaya popolo
daivyaṁdivino
janaṁnascita

Perveniamo qui a uno dei massimi vertici della rivelazione poetica dei bardi rigvedici. Questi straordinari veggenti, in un passato talmente remoto da perdersi nella notte dei tempi, indicano magistralmente il cammino che l’umanità intera ha da percorrere: anzitutto, creare una specie umana davvero consapevole e matura, lastricando quelle strade del pensiero che gli appartenenti al reame della Luce (vale a dire, i mitici patriarchi del genere umano) hanno aperto per noi tutti — in breve, fondare una umanità provvista di sano buon senso e di chiara discriminazione, equilibrata, consapevole di sé e in armonia con il proprio ambiente (quanto è lontano l’uomo attuale da questo primo traguardo, a dispetto del lungo e sanguinoso corso della storia!); quindi, come passo successivo, in qualità di pionieri della coscienza terrestre, affilare gli strumenti della gnosi, per potersi aprire un sentiero nella foresta vergine dell’avvenire, in vista di una palingenesi divina capace di generare una nuova specie (pienamente evoluta) sul pianeta Terra, come naturale completamento di quel processo evolutivo che — nel corso delle ere — ha condotto la coscienza sepolta nell’oscuro incosciente a emergere gradualmente, dando origine, nel terreno primario della materia cosiddetta inanimata, alle prime forme di vita minerali, poi vegetali, quindi animali, per giungere a questo provvisorio punto di rottura, di riflessione e di svolta, costituito dalla specie mentale per eccellenza: l’uomo. L’essere umano, tuttavia, ben lungi da costituire il fine ultimo dell’evoluzione (creatura troppo provvisoria, limitata, imperfetta, precaria e tragicamente mortale) è solo un “essere di transizione”, per fare ricorso alle efficaci parole di Sri Aurobindo. L’uomo è il gradino intermedio tra la bestia e il dio. Una divina nascita — daivyaṁjanaṁ— attende al fondo del percorso mentale che ha caratterizzato l’attuale ‘homo sapiens’. Verso questa meta alcuni esploratori particolarmente coraggiosi già stanno procedendo, quali apripista, esploratori e costruttori della nuova specie in via di formazione.


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