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LO SCIENZIATO OPPENHEIMER E IL ṚGVEDA

Robert Oppenheimer (1904 - 1967) fu un fisico atomico statunitense di rinomanza mondiale. Diede importanti contributi nel campo della fisica moderna, in particolare alla meccanica quantistica. Fu il primo a comprendere il cosiddetto “effetto tunnel quantistico”, oltre ad avvicinarsi con le sue ricerche alla scoperta del positrone, a portare avanti la teoria sulle piogge di raggi cosmici e a verificare il collasso di grandi stelle causato dalla forza gravitazionale. È inoltre noto il suo categorico rifiuto, dopo avere lavorato alla costruzione della prima bomba atomica nel 1942, di collaborare per la costruzione della bomba a idrogeno: nel dopoguerra, in qualità di Presidente del comitato consultivo della commissione per l’energia atomica, egli si oppose alla costruzione della bomba a idrogeno, ritenendo che un'arma di tale potenza non avrebbe risolto i problemi strategici degli Stati Uniti d’America; per conseguenza, nel 1954 un'inchiesta governativa gli vietò l'accesso ai segreti atomici, ma la comunità scientifica — capeggiata da Albert Einstein — insorse e, nel giro di pochi mesi, Oppenheimer fu confermato nel ruolo di direttore e professore dell'Institute for Advanced Studies di Princeton, carica che mantenne fino alla morte. Nel 1963 gli venne conferito il Premio Enrico Fermi e, oggi, egli rappresenta lo scienziato che più di ogni altro si oppose all’impiego bellico dell’energia nucleare.

Che relazione ha questo grande ricercatore con il Ṛgveda? Oppenheimer, oltre a essere uno scienziato di primissimo rango, era riconosciuto come uno degli intelletti più brillanti in circolazione; e le sue vaste conoscenze si estendevano con particolare attenzione e interesse alla cultura sapienziale indiana. Dopo avere studiato a fondo i Veda, ebbe a dichiarare, senza mezzi termini, che “l’accesso ai Veda costituisce il più grande privilegio che questo secolo [il XX, n.d.r.] è in grado di rivendicare su tutti quelli finora trascorsi” (ecco la citazione testuale: «The access to the Vedas is the greatest privilege this century may claim over all previous centuries»).

Come mai un fisico nucleare di indiscussa fama internazionale, che conobbe e partecipò alla radicalissima rivoluzione scientifica iniziata da Einstein (unanimemente riconosciuta come una delle rivoluzioni di maggiore portata che il mondo abbia mai conosciuto), considerava l’accesso alla conoscenza vedica l’elemento di maggiore importanza verificatosi nel corso del ventesimo secolo? Ancor più importante, quindi, della teoria della relatività formulata da Einstein in quello stesso secolo?

Ebbene, abbiamo cercato di ripeterlo spesso in queste nostre pagine informatiche, proprio come figura a più riprese nella stessa traduzione integrale del Ṛgveda da noi pubblicata: tale innodia non è soltanto il più antico documento della cultura indiana, ma anche e soprattutto della cultura euroasiatica alla quale noi tutti apparteniamo! Conoscere tale testo, approfondirlo, compulsarlo, “ruminarlo” (come direbbe Nietzsche), si rivela dunque indispensabile per ognuno di noi indoeuropei moderni. Infatti, il suo esame approfondito, oltre a farci prendere coscienza della sostanziale unità culturale che collega intimamente tutte le popolazioni dell’Europa e dell’Asia, offre alcuni potentissimi stimoli che potrebbero verosimilmente aiutarci a uscire dall’impasse in cui l’umanità è sprofondata a livello planetario.

Come mai, allora, la “cultura ufficiale” non pone sufficiente interesse in questa opera?

Come mai, anzi, essa viene perlopiù relegata alla “religiosità indù” e viene interpretata nel modo più pedestre e deformante possibile (complici più o meno inconsapevoli gli stessi docenti universitari, la cui ignoranza in tal senso è davvero sbalorditiva e a dir poco imbarazzante)?

Semplice: i poteri forti che attualmente dominano l’economia mondiale non vogliono una reale fratellanza umana, ma la divisione e i conflitti etnici. Divide et impera — così essi prosperano e hanno sempre prosperato, depredando e impoverendo sempre più il pianeta e, quindi, ciascuno di noi. L’avvilente sottocultura alla quale cercano di tenerci asserviti, è il loro migliore alleato. Per questo cercano di detenere il maggiore controllo possibile sui mezzi di informazione di massa.

Diciamo subito, a scanso di equivoci, che noi non siamo complottisti pullulanti in rete. Resta tuttavia un fatto innegabile che l’attuale società capitalista (ovvero, i poteri che la dirigono), siano contro una vera e organica unità umana (rispettosa delle diversità) e vogliano appiattire l’intera umanità su un modello unico di consumismo sfrenato e irrispettoso, cinico sfruttatore degli esseri viventi e delle risorse del pianeta Terra, per biechi interessi di una piccola masnada di avidi detentori della ricchezza mondiale.

Il raffinatissimo intellettuale Romain Rolland, ben consapevole di questo dato di fatto, ebbe a denunciare più volte tale imbarazzante verità. Egli esortò tutti quanti noi con queste parole (e tale invito lo abbiamo preso come un fermo impegno della scrivente casa editrice): «dobbiamo riunire insieme la grande famiglia indoeuropea che è stata divisa in due in modo criminale». Già: divisa in due in modo criminale! Europa da una parte, Asia dall’altra. Facendole apparire come diametralmente opposte, recanti in sé una insanabile dicotomia: un’Europa pragmaticamente concentrata sulla esplorazione e la padronanza di questo mondo, contrapposta a un’Asia assorta nella contemplazione statica dell’aldilà. Ma si tratta di una generalizzazione insopportabilmente banale, davvero inaccettabile. È innegabile che l’Europa — a partire dal Rinascimento — abbia cercato un riscatto sociale, conferendo a questo mondo una centralità sempre più rilevante — l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese, il Positivismo sono lì a testimoniarlo. Ed è altrettanto innegabile che l’Asia, negli ultimi duemila anni, si sia eccessivamente concentrata con rigido esclusivismo sulla fuga dal mondo, allo scopo di riparare in un cielo più o meno quietista. Ma ciò non esaurisce affatto l’interezza della cultura euroasiatica che, a partire proprio dal Ṛgveda, ha una storia infinitamente più lunga e complessa. Peraltro, il fatalismo asiatico e lo scientismo europeo sono entrambi percorsi relativamente recenti, rivelatisi entrambi fallimentari per la nostra Madre Terra (e per tutti noi, suoi figli più o meno irriconoscenti).

Come se ciò non bastasse, una volta operata tale drastica frattura tra Europa e Asia, i poteri forti cui abbiamo accennato hanno ulteriormente diviso gli uomini in una guerra dei poveri che oggi sta mostrando sempre più i suoi aspetti esiziali: in India, tanto per fare un esempio, il colonialismo europeo del diciottesimo e del diciannovesimo secolo ha diviso in due gli stessi abitanti di tale subcontinente, creando artatamente due “razze” distinte: gli ariani (abitanti nel Nord) e i dravida (stanziati nel Sud). E hanno cercato, mediante le più spregiudicate manipolazioni testuali, di far apparire lo stesso Ṛgveda come la prima testimonianza esistente del conflitto tra queste due presunte “razze”. La realtà è ben diversa, come chiunque può constatare leggendo in prima persona il testo da noi tradotto. Non a caso, l’India intera considera il Ṛgveda come il testo di riferimento da cui sorsero le scaturigini della loro antichissima cultura. Sarebbe impossibile entrare nel merito di tale argomento in un articolo breve come il presente — allo scopo, consigliamo vivamente la lettura del saggio di Tommaso Iorco intitolato “Dai Veda a Kalki”.

Per tornare invece al nostro argomento principe, ricordiamo come nel Tamil Nadu (la maggiore regione meridionale dell’India dravida), i Veda vengano identificati con l’appellativo di Marai che, in lingua tamil, significa “nascosto, segreto”. Vi è dunque un significato nascosto del Ṛgveda, occultato da pregiudizi e fraintendimenti, che Sri Aurobindo ha invece svelato per tutti noi (in modo da riportarne alla luce il senso vero) nella sua incomparabile opera di esegesi intitolata “Il segreto dei Veda”, che noi abbiamo fatto nostra nel realizzare questa traduzione integrale — la prima e l’unica esistente in italiano. Fuori da ogni polemica sterile, lasciateci tuttavia sottolineare il fatto che, in Italia, è stata una piccola realtà editoriale come la nostra che ha dovuto assumersi l’impegno colossale di pubblicare un testo di così universale importanza, mentre le grandi case editrici paiono sempre più asservite alla sottocultura imperante e alle più bieche leggi di mercato.

Noi siamo convinti che se Oppenheimer ha accordato una importanza così preminente al testo rigvedico, è perché ne ha colto — più o meno compiutamente — la sua forza e la sua importanza per tutti noi, figli della grande civiltà euroasiatica.

Accostandosi al Ṛgveda, infatti, chiunque tra noi può ravvisare (in modo più o meno dettagliato) almeno due elementi di primaria importanza:

1.

il fatto che tale sublime testo poetico sia alla base della maggior parte del retaggio culturale che, tanto in Europa quanto in Asia, ha modellato le varie tradizioni — popoli come gli indiani, i greci, gli slavi, i finnici, gli iraniani, i celti (di Francia, d’Irlanda, di Spagna o altrove), compresi ovviamente noi italiani e molti altri popoli, posseggono un ceppo comune e condividono le medesime tendenze propulsive principali: assenza di dicotomia tra Materia e Spirito (o, se si preferisce, tra Essere e Divenire), centralità del culto accordato alla Grande Dea, in quanto aspetto dinamico della Realtà suprema; rispetto per la Terra in cui viviamo, vista per l’appunto come una forma da amare e da rispettare di quella Grande Dea, in quanto Madre Terra;

2.

la sconcertante evidenza di come i veggenti rigvedici fossero alla ricerca di una soluzione terrestre (e non esclusivamente trascendente) del grande mistero dell’uomo e del cosmo; da autentici esploratori della coscienza, questi insaziabili ricercatori giunsero infine alla scoperta del “Sole che dimora nell’oscurità” (Ṛgveda, III.XXXIX.5) — vale a dire, della Coscienza-Forza divina sepolta nell’incosciente materiale — che occorre riportare sempre più pienamente in luce, in modo da realizzare quel perfetto connubio tra Materia e Spirito, riconciliatore di tutti gli opposti: «Cielo e Terra uguali e uniti», per dirla con le parole stesse dei vati rigvedici (VIII.XX.4).

Tocca dunque a ciascuno di noi, in questo particolare e delicatissimo passaggio storico, ricucire la “criminale frattura” operata tra Europa e Asia, in modo da ritornare a essere gli euroasiatici che siamo sempre stati; tocca a noi svelare il sole dell’immortalità celato nelle viscere della materia, «fondendo il mortale in una suprema immortalità», per citare nuovamente gli eccezionali bardi rigvedici (Ṛgveda, I.XXXI.7); tocca a noi uscire definitivamente dalla crisi attuale (che trafigge e sfigura il volto della nostra adorata Madre Terra) per rendere infine Cielo e Terra felicemente uniti (yujanta rodasi) — questo ci intimano infatti i nostri progenitori vedici, dal fondo dei tempi: «Diventate l’essere umano, create la specie divina», manur bhava janayā, daivaṁ janam! (Ṛgveda, X.53.6).

Concludiamo dunque con la meravigliosa esortazione finale del Ṛgveda — inno X.191.2-4 — come risulta nella stupenda traduzione in endecasillabi che il poeta Tommaso Iorco ha realizzato per tutti noi:

Venite, aduniamoci, enunciamo
un’unica parola; siano unite
le nostre menti nell’unica Gnosi,
similmente agli antichi dèi, che ottennero
ciascuno la Porzione designata,
raggiunta l’unitaria Conoscenza. (2)
Un mantra unico ottennero essi,
in adunanza — un’unica mente
e conoscenza unica; esprimo
per voi l’unico mantra e porgo un’unica
Offerta, in cui ogni vostra è compresa. (3)
Uniti in una sola aspirazione,
tutti accordati in un unico cuore,
con una mente unica, godiamo
dell’intima unità fra tutti noi. (4)



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