OSSERVAZIONI DI BEPPE PICARO
(sull'articolo Il Ṛgveda non necessita di interpretazioni)
Che bello ricevere una vostra lettera! Ho trovato molto interessante la lunga disamina vedica e mi trovo pienamente d’accordo e, per vostro diletto, aggiungo rispettosamente alcune osservazioni.
Ho studiato sanscrito all’università e confermo che la tendenza accademica è contraria a ogni vera comprensione del testo. Tutto si risolve in un gioco matematico dove l’elemento più importante, ovvero il suono, viene tralasciato. Le note fonetiche, che pure potrebbero fornire spunti di ispirazione divina, sono trattate con arida accademica enumerazione e non certo con quel vezzo artistico necessario a cogliere ciò che giace oltre le parole.
L’espressione artistica utilizza il linguaggio come un ponte per attraversare il fiume della ragione e approdare a un nuovo mondo. È l’arte dell’allusione, dei sogni, della meditazione, della devozione. Credere che questo sia un limite del linguaggio sarebbe un grosso errore, si tratta infatti di una sua specifica e antichissima funzione, ovvero la funzione mantrica della parola. “Mantra” si potrebbe infatti tradurre letteralmente come “strumento della mente”. Man = Mens, Tr = Str... umento. Sono i suoni-seme che vibrano dentro le parole.
Gli inni del Ṛgveda sono istruzioni operative: la scienza dello spirito praticata così come era praticata in un altro tempo.
Fermarsi a una analisi formale equivale ad analizzare la grammatica di un codice informatico senza capire che il suo scopo è quello di fornire istruzioni a computer per generare le magie del ventunesimo secolo.
I monaci buddisti tibetani che ho avuto la fortuna e il piacere di incontrare dicevano sempre, all’inizio delle loro puja, che non si trattava di religione e che non occorreva convertirsi al Buddhismo per trarre beneficio dai riti praticati: “Sedetevi comodi, recitate una preghiera se volete, anche una preghiera cattolica, o se volete il mantra breve che vi dico adesso. Sono riti molto antichi che ci sono stati tramandati da Buddha in persona.” Ovviamente il mantra breve veniva sempre cantato. Poteva essere in tibetano o in sanscrito, ma spesso era in un misto tra le due lingue.
Ciò che attiva il programma mantrico non è nelle parole ma nel suono e nelle immagini evocate tramite le parole, così come avviene per ogni vero testo poetico.
Esiste un forte legame tra suono e visione. Nella mia esperienza posso solo dire che da giovane studente dissi a un maestro di musica che durante le improvvisazioni vedevo immagini. Solo molto tempo dopo lessi che Rol fece una simile correlazione. Questa connessione è particolarmente evidente nella danza: per un ballerino è naturale convertire i suoni in figure in movimento.
Il mio primo tentativo di traduzione fu con l’inno cosmogonico X 129. E l’inizio di Savitri. Le due cose hanno combaciato in un abbraccio divino. Allora e adesso diventarono un solo momento. Cambia tutto ma oltre il ponte mi ritrovai sulla stessa riva.
Inoltre, se vogliamo spingerci oltre, e dobbiamo assolutamente farlo, questi testi furono concepiti da esseri di un’altra epoca, non dagli omuncoli sapienti degli ultimi millenni, ma da veri anima-li del Creato. Quanto tempo fa? Forse anche 10.000 anni fa.
Beppe Picaro