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Āmnāyarahasya
(Il segreto dei Veda)


śrutena kiṁ yena na dharmamācaret |
Mahābhārata,
XII.CCCIX.91.


Come è risaputo, non è affatto recente l’incomprensione del Ṛgveda: la difficoltà nel cogliere il reale significato di questa innodia era già ben nota a Yāska, l’antico grammatico indiano (di cui abbiamo avuto modo di parlare in un precedente articolo – vedi Nirukta) che, circa tremila anni fa, constatò:


tat ko vṛtraḥ | meghaḥ iti nairuktāḥ tvāṣṭro‘suraḥ ity aitihāsikāḥ (Nirukta, II.16).


Ovvero:


“Chi è Vṛtra?” — “Una nube”, afferma l’etimologo; “un demone, figlio di Tvaṣṭri” ribatte il mitologo.


In realtà, hanno ragione e torto entrambi i suddetti studiosi. Proprio in questo apparente paradosso è celata una delle chiavi di accesso principali nella poesia rigvedica.

L’etimologo è nel giusto, in quanto tradurre ‘nube’ è plausibile (sebbene non costituisca l’unica traduzione possibile), ma sbaglia grossolanamente nel ritenerla una nuvola fisica: è, invece, una nube interiore, che oscura e copre (radice vṛ, ‘coprire, chiudere, ostruire’) la luce-di-verità all’umano ricercatore.

Il mitologo, dal canto suo, in modo consono alla sua specializzazione, coglie il senso mitologico: Vṛtra è un demone notturno. Ma egli considera l’immagine della nube alla stregua di un mero simbolo mitopoietico, mentre per i bardi rigvedici (e per chiunque abbia simili esperienze) si tratta di una realtà viva e concreta che, alla coscienza interiore, spesso assume proprio la forma ottenebrante di una fitta nube minacciosa. Il poeta-veggente ha la percezione di un ammasso cupo che, giustappunto, obnubila la coscienza e, per conseguenza, produce i suoi nefasti effetti interiori: lacera, distorce, divide, separa (non a caso, tutti questi sono ulteriori significati contenuti nella radice vedica vṛ, come testimoniano altri termini rigvedici da essa derivati, quali vṛka, ‘colui che lacera’, vṛjinā, ‘tortuoso’, varanta, ‘chiudere, sbarrare’).

Non soltanto le forze avverse, ma pure – e ancor di più, in effetti – gli dèi rigvedici sono rappresentativi di forze psicologiche che operano nell’intero ordinamento cosmico e, in particolare, all’interno dell’essere umano. Non a caso, un passo contenuto nello Atharvaveda (X.II.31) afferma che il corpo umano è la città degli dèi (devapuri); dal canto suo, lo Yajurveda (XXXIV.55) giunge persino ad affermare che i mitici sette savi (saptaṛṣi) risiedono all’interno del corpo umano. Dagli inni del Ṛgveda si desume che le divinità costituiscono le svariate funzioni ‘psicologiche’ (come le classifichiamo noi moderni) dell’unico Divino. Rivolgersi a una particolare deità, per il veggente vedico significava evocare un determinato aspetto, una specifica funzione operativa dell’unico Deva. Ecco allora che, per afferrare il segreto dei Veda, occorre anzitutto comprendere le peculiari qualità che ciascun dio riveste nell’insieme.

Nella nostra edizione del Ṛgveda, il traduttore/curatore si è premurato di inserire sempre, in apertura di ogni inno, accanto al nome del dio volta per volta invocato, una succinta descrizione parentetica della sua specifica funzione, per poi approfondire tale funzione nelle note a corredo del testo. Pertanto, sarebbe pleonastico soffermarsi, qui, su quanto là si trova descritto in modo esaustivo e chiaro. Intendiamo piuttosto approfondire il vissuto di Mère in relazione agli dèi rigvedici, citando direttamente le sue parole. Per inciso, i maggiori riferimenti al Ṛgveda da parte di Mère sono contenuti nel secondo volume della sua Agenda, relativa all’anno 1961, essendo in quel periodo immersa (tra le altre cose) nella lettura del volume Il segreto dei Veda scritto da Sri Aurobindo.

«La lettura degli inni del Ṛgveda prosegue… Vedo benissimo come sono belli e quanto dovevano essere validi per quegli individui, quale potere di realizzazione dovevano avere quegli inni. Ma per me… C’è stato un tempo in cui ero in contatto con tutti quegli dèi, e per me avevano una realtà assolutamente concreta; mentre adesso… […] I Veda parlano di Agni, di Varuṇa, di Indra… […] Tanto tempo fa, ricordo, mentre coadiuvano Sri Aurobindo nel tradurre questi inni a Agni, tale dio aveva una realtà precisa per me.» (l’Agenda de Mère, vol. II, 18 aprile 1961). «Ho finito di leggere il Ṛgveda. Se i ṛṣi ebbero un’esperienza come quella, è una cosa splendida… Però non so se la vissero FISICAMENTE. Lì, nei mondi interiori, d’accordo: è ovvio! Quando si vive lassù, va benissimo, uno è perfettamente felice; ma quaggiù – QUAGGIÙ – per rendere questa vita qui, questo mondo qui, qualcosa che valga sul serio la pena di essere vissuto… […] Tutto quello che possiamo avere nella vita fisica non vale niente di niente! Sono giochi infantili, non vale la pena di starci a pensare neanche un secondo. Non è niente di niente, a meno di non avere il senso della VITA VERA, della Verità – tutto il resto non è niente, ma proprio niente di niente: solo passatempi, svaghi puerili.» (l’Agenda de Mère, vol. II, 12 maggio 1961).

Quanto all’atteggiamento di Sri Aurobindo nei confronti degli dèi, ci limitiamo a riportare tre citazioni (tanto brevi quanto pregnanti). Le prime due sono tratte dall’epopea Ilio: trascriviamo anzitutto l’originale inglese, in esametri sublimi –


495

Hera widens,

Pallas aspires in me, Phoebus in flames goes battling and singing,

Ares and Artemis chase through the fields of my soul in their hunting.

Last in some hour of the Fates a Birth stands released and triumphant;

[…]

502

Fighting we strive by the spur of the gods who are in us and o’er us,

Stamping our image on men and events to be Zeus or be Ares.


Sri Aurobindo, Ilion, III


I vari dèi greci vengono percepiti interiormente, anche in questo caso ciascuno assumendo una funzione specifica. La traduzione in endecasillabi effettuata da Tommaso Iorco (aria nuova edizioni, 2008) suona così –


In me Era raggiunge nuove ampiezze,

Pallade aspira in me, in fiamme Febo

combatte e canta, Artemide e Ares

vanno a caccia nei campi del mio animo.

Infine, all’ora dei Fati una nascita

si leva, libera e trionfante; sparsa

sulla terra mediante il suo operato,

compiuta, gode del proprio splendore. […]

Spronati dagli dèi che sono in noi

e oltre, con veemenza combattiamo,

imprimendo su uomini ed eventi

la nostra effige e farci Zeus o Ares.


Nel canto successivo, sempre in Ilio, troviamo quanto segue –


330

Surely the gods shall obey in the end the might of our spirits,

Pallas and Hera, flame-sandalled Artemis, Zeus and Apollo.

Ever serve the immortal brightnesses man when he stands up

Firm with his will uplifted a steadfast flame towards the heavens,

Ares works in his heart and Hephaestus burns in his labour.


Sri Aurobindo, Ilion, IV


Sicuro è che gli dèi obbediranno

ai nostri spiriti valenti: Pallade,

Era, Artemide dai sandali ardenti,

Zeus e Apollo. Gli splendidi immortali

servono sempre l’uomo che si erge

fermo nel suo volere verso i cieli,

come una fiamma inestinta; all’opera

nel suo cuore è Ares, mentre Efesto

arde nel suo lavoro.


Infine, riportiamo un aforisma –

«Sii vasto in me, o Varuṇa; sii possente in me, o Indra; o Sole, sii estremamente risplendente e luminoso; o Luna, sii piena di fascino e dolcezza. Sii feroce e tremendo, o Rudra; siate impetuosi e rapidi, o Marut; sii forte e audace, o Aryaman; sii voluttuoso e piacevole, o Bhaga; sii tenero e gentile, amabile e appassionato, o Mitra. Sii splendida e rivelatrice, o Aurora; o Notte, sii solenne e pregna. O Vita, sii piena, sollecita e vivace; o Morte, conduci i miei passi da una dimora all’altra. Armonizzali tutti, o Brahmaṇaspati. Fa’ che non sia assoggettato a questi dèi, o Kālī.»

Sri Aurobindo, Thoughts and Aphorisms (n° 56).


Anche in questo caso, gli dèi vedici vengono invocati interiormente, offrendo pure una succinta descrizione del diverso operato di ciascuno, per poi chiedere alla dea Kālī (la Suprema Potenza nel suo aspetto volto ad annientare le forze ostili e ad abbattere i limiti) di liberare la coscienza da un qualunque tipo di assoggettamento.


Occorre precisare che gli dèi rigvedici sono alquanto differenti dalle concezioni successivamente sviluppatesi, tanto in India (nei racconti tardo-puranici, in particolare) quanto altrove (Mesopotamia, Grecia, Egitto, Roma, Mesoamerica…). Infatti, con il passare del tempo gli dèi verranno rappresentati con caratteristiche sempre più simili a quelle dell’umano-troppo-umano (gelosi, violenti, irascibili, ecc.), mentre gli dèi rigvedici sono chiaramente poteri e aspetti del Supremo, emanati dalla coscienza sopramentale (supramental) e dimoranti all’apogeo della surmente (overmind). Risulta quindi perfettamente comprensibile che Mère, durante il suo percorso conducente alla trasformazione sopramentale, li oltrepassi per trovare quelle stesse funzioni nella loro unità divina suprema – non più quali poteri separati dell’unico Deva (aventi quindi un certo grado di autonomia più o meno deformante), ma l’unico Deva stesso che proietta frontalmente una delle sue innumerevoli qualità operative, preservando l’interezza perfino in quella specifica funzione (come, a onor del vero, lo stesso Ṛgveda lascia talvolta intendere). Per intenderci, è esattamente quanto avviene nei confronti dei quattro Aspetti della Mahāśakti (महाशक्ति) mirabilmente e dettagliatamente descritti in “The Mother” (testo redatto da Sri Aurobindo in stretta collaborazione con Mère): non si tratta, infatti, di quattro divinità emanate dalla Grande Dea-di-tutto, le quali hanno in seguito assunto una loro autonomia separata, bensì – per l’appunto – di ASPETTI della Personalità (personale-impersonale) dell’unica Madre Divina. Solo nei gradi coscienziali sottostanti la divina sopramente vennero a formarsi emanazioni quasi autonome di ciascuno di tali Aspetti – per esempio, Mahākālī possiede un cospicuo numero di emanazioni nei piani di coscienza vitali e, seppur minori di numero, pure in quelli mentali (nel vitale inferiore ve ne sono che rivestono aspetti di una violenza tremenda, decisamente inquietante, che ben poco preservano della divinità originaria da cui sono scaturiti e separati).

In conclusione, per tornare a Mère allargando l’argomento all’intero segreto dei Veda, è di sommo interesse constatare come «nello yoga terrestre – lo yoga della terra, del pianeta terra –, ci fu un momento in cui quelli che loro [i ṛṣi vedici] chiamano gli avi, ricevettero almeno un’immagine della realizzazione sopramentale. Coloro che redassero i Veda, che composero tutti questi inni, preservarono il ricordo di tutto ciò, o ereditarono la tradizione di questa esperienza.» (l’Agenda de Mère, vol. II, 7 aprile 1961). Per poi aggiungere, qualche mese dopo, in relazione all’esperienza sopramentale: che «No, essi [i ṛṣi vedici] ne ebbero solo una percezione, come una visione della “cosa”, ma non vi sono prove che l’abbiano realizzata. D’altronde, a me pare impossibile che ciò fosse stato realizzato e non si possa ritrovare quanto avvenne – sarebbero rimaste delle tracce. E tali tracce non esistono. […] In base a quanto Sri Aurobindo ha visto, e che io stessa ho visto, i ṛṣi ebbero il contatto, l’esperienza, una sorta di conoscenza vissuta della cosa, al modo di una promessa che giunge per preannunziare: “ecco come sarà”. Ma non ne rimane traccia. Io stessa, quando ho avuto tale esperienza [la prima manifestazione sopramentale sulla terra, accorsa il 29 febbraio 1956], ho constatato che non si è trattato di una discesa completa: è avvenuta la discesa della Coscienza, della Luce, e di una porzione, di un aspetto del Potere. Immediatamente, però, tutto ciò è stato assorbito nel mondo dell’Incoscienza, che ha inghiottito tutto. E la cosa ha incominciato a operare a partire da quel momento – ha iniziato a lavorare nell’atmosfera. Ma non si è trattato della COSA che si instaura definitivamente – nel qual caso, non avremmo avuto alcun bisogno di dirlo, in quanto sarebbe diventata evidente! L’esperienza del 1956 ha rappresentato un passo in più, ma non si è trattato della cosa definitiva. Quanto i ṛṣi vissero, fu una sorta di promessa – un’esperienza INDIVIDUALE» (l’Agenda de Mère, vol. II, 5 novembre 1961). «È salendo alla sommità della coscienza, mediante una ascensione progressiva, che ci si unisce al sopramentale. Ma nel momento in cui l’unione è compiuta, si sa e si vede che il sopramentale si trova pure nel nucleo dell’incosciente. A quel punto, non esiste più né alto né basso. Ma per trasformare la natura fisica, GENERALMENTE è RIDISCENDENDO le gradazioni dell’essere con una coscienza sopramentalizzata che la trasformazione in modo permanente può essere compiuta. Nulla prova che i ṛṣi abbiano utilizzato un altro metodo, sebbene, per effettuare una simile trasformazione (se mai la realizzarono), dovettero necessariamente forzare il cammino mediante la lotta contro i poteri dell’incoscienza e dell’oscurità.» (l’Agenda de Mère, vol. II, 6 novembre 1961). Segue quindi una conversazione, datata 7 novembre 1961, che varrebbe la pena di leggere per intero e alla quale rimandiamo, in quanto Mère descrive in modo piuttosto dettagliato l’esperienza sopramentale come l’hanno vissuta lei stessa e Sri Aurobindo, entrando nel merito di quel “cammino della discesa” che ha conseguenze fondamentali per l’intera evoluzione terrestre.



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