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DOMANDE E RISPOSTE

Il curatore/traduttore del Ṛgveda risponde qui a una serie di domande ricevute dai lettori.
Abbiamo cercato di disporle, per quanto possibile, seguendo l’ordine cronologico degli inni rigvedici.


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1. [Ṛgveda, pag. 6]

Domanda: Sono un fervente studioso della lingua vedica e desidero congratularmi con lei per la qualità ineccepibile e magistrale della traduzione; sin dal primo inno (e fino all’ultimo), mi sono meravigliato delle sue eccezionali doti nel modellare l’endecasillabo, ma non solo: per limitarmi a fare un piccolo esempio tratto giusto dal primo inno, trovo geniale l’utilizzo di «antistite» nel trasporre il vedico purohitam… Nessun traduttore italiano a me noto aveva trovato un espediente così efficace e così opportuno prima di lei. Le due parole sembrano sortite da un medesimo afflato – “antistite” essendo composto, nell’originale latino, da ante “davanti” e stare (“stare”), e purohitam è praticamente identico: pur “di fronte” e hitam “porre”. Come se non bastasse, la parola antistes indicava, presso i popoli latini, il sommo sacerdote di una divinità. E questo è un solo esempio fra mille: ovunque si scorge una analoga sapienza traduttiva, abilmente celata dietro una sorprendente naturalezza di scansione dell’endecasillabo. Complimenti vivissimi. Vengo ora alla mia domanda: nelle pagine di apertura del volume figura un elenco di inni considerati dal traduttore come fondamentali per comprendere il simbolismo rigvedico. Avendoli letti (come consigliato) prima di immergermi nella lettura dell’intero testo, vorrei chiedere al traduttore se a suo avviso si può ulteriormente estendere questa lista, diciamo a una cinquantina di inni. Grazie.

[Matteo B.]


Risposta: Grazie a lei per i complimenti magnanimi. I 20 inni da me indicati nell’elenco da lei alluso possiedono un simbolismo che, per quanto fondamentale nel comprendere l’intera innodia, si può tutto sommato considerare di facile e immediata comprensione: questo il motivo che mi ha spinto a caldeggiarne la lettura prima di iniziare a compulsare il Ṛgveda per intero. Qui di seguito, per soddisfare la sua gentile richiesta, indico altri 20 inni altrettanto fondamentali, che si potrebbero aggiungere alla lista da me indicata, ma il cui simbolismo è decisamente più criptico e, pertanto, sarebbe semmai consigliabile andarseli a rileggere alla fine della lettura integrale dell’innodia (magari, prima di incominciare una seconda e più approfondita lettura). Li indico avvalendomi dei medesimi criteri grafico-stilistici adottati per l’elenco presente nel libro.

Ciclo I

Inno 71 (pagg. 144-145) [l’incosciente materico cede]

Inno 164 (pagg. 330-333) [l’immortale da cui scaturisce il mortale]

Ciclo III

Inno 55 (pagg. 586-587) [vasta potenza degli dèi, quell’Uno]

Ciclo V

Inno 2 (pagg. 724-725) [il Guardiano del Campo]

Inno 10 (pagg. 740-741) [le anime radiose della gnosi]

Inno 62 (pagg. 844-845) [Quell’Uno, Dio degli dèi]

Ciclo VI

Inno 7 (pagg. 910-911) [il custode dell’immortalità]

Ciclo VII

Inno 50 (pagg. 1148-1149) [un tentativo di trasformazione fisica]

Ciclo VIII

Inno 69 (pagg. 1396-1397) [il Latte, il Miele e le Vacche di Gnosi]

Inno 72 (pagg. 1402-1403) [Colui che rifulge al di là del pensiero]

Inno 91 (pagg. 1440-1441) [la solarità sopramentale nel corpo]

Ciclo IX

Inno 10 (pagg. 1486-1487) [la Dimora dell’Uno radioso]

Inno 12 (pagg. 1490-1491) [il Grembo misterioso della Dea]

Inno 87 (pagg. 1640-1641) [il nome segreto del dio Soma]

Inno 94 (pagg. 1654-1655) [il dio della suprema Beatitudine]

Ciclo X

Inno 45 (pagg. 1786-1787) [il figlio della Forza divina]

Inno 46 (pagg. 1788-1789) [la sorgente della Luce]

Inno 60 (pagg. 1816-1817) [il dono divino della pienezza]

Inno 72 (pagg. 1840-1841) [il Sol Niger covante dal basso]

Inno 89 (pagg. 1858-1859) [l’Autogeno artiere di tutto].

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2. [Ṛgveda,I.XII; pagg. 26-27]

Domanda: Il dodicesimo inno del primo Maṇḍala riporta una nota a piè di pagina in cui si cita Sri Aurobindo in relazione al termine viśvavedasam; vorrei comprendere la differenza tra le due possibili traduzioni di questa parola, visto che appaiono così diverse nel significato. E, se possibile, sapere qual è la traduzione più precisa sotto il profilo strettamente letterale. Inoltre, se mi è concesso fare una seconda domanda, mi piacerebbe comprendere il motivo per cui così spesso, negli inni rigvedici indirizzati a Indra, viene chiesto al dio di bere la libagione preparata dagli umani astanti, in modo da dargli forza: che necessità ha un dio potente come Indra di assorbire un preparato umano? Molte grazie

[Umberto G.]


Risposta: Sri Aurobindo offre una traduzione essoterica accanto a una esoterica, ovviamente prediligendo quest’ultima. La più corretta, anche dal punto di vista strettamente linguistico e letterale, è l’esoterica: viśva-vedas, ovvero, “conoscitore-di-tutto” e, quindi, “onnisciente”. La traduzione essoterica, “possessore di tutte le ricchezze”, è quella offerta dai traduttori ritualisti o naturalistici, e contiene una leggera forzatura, nel senso che la radice vedica vid (successivamente riscontrabile nel sanscrito, nel latino e nel greco, come pure nel tamil) reca tutta una serie di significati che vanno dal vedere, al conoscere, al risplendere – ed è proprio in quest’ultima accezione che il termine in questione viene interpretato come “ricchezza”, nel senso di tesoro risplendente (per luce riflessa, come l’oro o i diamanti). In ogni caso, si tratta di una parola composta che ricorre una ventina di volte nell’intero corpus rigvedico, generalmente in relazione al dio Agni, ed è affine a un ulteriore epiteto rivolto costantemente (e ben più copiosamente: un’ottantina di volte) al medesimo dio in quanto jātavedas: “conoscitore di tutte le cose nate” o, meglio, “conoscitore di tutte le nascite” (con ogni probabilità, entrambe le accezioni vanno considerate contemporaneamente).

In merito poi alla seconda domanda, ovviamente Indra (al pari degli altri dèi rigvedici, considerati quali attributi o specifiche manifestazioni del Divino) non ha alcuna necessità di bere la bevanda offerta dagli umani veggenti per attingere forza; la necessità che viene sottintesa, riguarda la cooperazione dell’uomo all’opus alchemico di trasformazione: l’essere umano deve in qualche misura collaborare affinché il Divino possa agire attraverso di lui; l’uomo, se vuole sperare di farsi strumento della Divinità, deve offrire l’essenza più pura di sé al Divino: solo così può avere luogo la trasformazione, tramite quell’acconsentimento da parte dello strumento – quest’ultimo, non essendo un mero automa, bensì un essere senziente consapevole, deve scegliere di donarsi, senza alcun obbligo o compulsione.

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3. [Ṛgveda, I.XIV/XV; pagg. 30-33]

Domanda: Scrivo per alcuni chiarimenti sul Ṛgveda relativi agli inni 14 e 15 del primo Maṇḍala (ovviamente prendendo in considerazione la vostra edizione). Nell'ultimo rik dell'inno 14 c'è scritto: "Al tuo Cocchio aggioga il Rosa e il Verde e il Cremisi [...]", adesso chiedo: questi colori hanno un qualche valore simbolico? Relativamente all'inno 15 si menziona una certa "Grava" al settimo rik, non sono riuscito a trovare su internet un possibile significato, né viene indicato nell'introduzione all'inno, avrei bisogno cortesemente di una delucidazione. Grazie in anticipo.

[Francesco D. G.]


Risposta: I colori hanno certamente un valore simbolico, come qualunque altro dettaglio presente nell’innodia. Volendo investigare sul loro significato, il rosa (aruṣī, indicante la cromia predominante alle prime luci dell’alba, con un ovvio seppur indiretto riferimento a Uṣas, la dea dell’aurora) dovrebbe raffigurare le energie psichiche; il verde (harito, un verde chiaro particolarmente brillante tendente al giallo, che contraddistingue l’azione del dio Indra) le energie dinamiche della mente divina; il cremisi (rohitaḥ, corrispondente alla tonalità di rosso – con qualche riflesso blu in aggiunta – tipica del guizzare delle fiamme catartiche del dio del fuoco Agni) le energie vitali purificate.

In merito a grāva, riporto qui di seguito qualche estratto di quanto si trova in alcune note contenute nel volume stesso…

  • Pag. 58: la dea chiamata ‘Pietra’ (grāvaḥ, nel rituale esteriore rappresentata dalla pietra-da-macina) costituisce il corpo fisico dell’umano scopritore, impegnato nella spremitura al fine di produrre l’ambrosia immortale NELLA MATERIA (e non esclusivamente nei dominî in alto, laddove Soma ha origine).
  • Pag. 168: Il ‘masso’ designa la componente materica del cantore, il corpo fisico — è la pietra-da-macina (grāvaḥ) che spreme il Soma e ne fa scaturire il net­tare, corrispondente al corpo (karuḥ) dell’officiante, che fa vibrare in alto le «parole-di-potere» (ukthyaṁ vaco).
  • Pag. 974: la coppia di dèità chiamate ‘Pie­tre-da-macina’ (vedico grāvaṇ, plurale grāvāṇaḥ) mediante le quali viene estratto il Soma, non sono attrezzi fabbricati da uomini: divinità immortali, sono ritenute più possenti del cielo stesso, che viene talvolta poeticamente raffigurato come una coppa capovolta, all’interno della quale, per l’appunto, viene spremuto e riversato il mistico Soma inebriante.

Queste sono le tre glosse principali riferite a grāva, ma ve ne sono altre ancora, seppur di minore rilevanza. Colgo l’occasione per permettermi di consigliare di leggere una prima volta il testo rigvedico per intero, possibilmente appuntandosi i riferimenti relativi ai vari elementi del simbolismo. In tal modo, tutto apparirà sempre più chiaro a ogni successiva rilettura.

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4. [Ṛgveda,I.XVIII; pagg. 38-39]

Domanda: Se possibile, vorrei ricevere alcune delucidazioni in riferimento all’Inno 18 del primo Libro del Ṛgveda. Anzitutto, nelle note a fronte si rimanda a un versetto della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad: I.III.21. Ho provato a cercarlo nella forbita edizione delle Upaniṣad curata da Pio Filippani Ronconi e ho trovato la seguente traduzione:

21. Egli è invero il sāman, perché la parola è sāman. Egli è tanto quella quanto questo, donde il nome di sāman; ed anche perché egli è uguale ad un verme, uguale ad una zanzara, uguale ad un elefante, uguale a questo trimundio: per questo egli è sāman. Colui il quale in questo modo conosce il sāman, costui ottiene l’unione con il sāman, partecipa al mondo del sāman.

Francamente, dopo avere letto questo versetto, confesso che non mi è per niente chiara la correlazione con il dio Brahmaṇaspati allusa e chiedo pertanto gentili chiarimenti. Passo poi rapidamente al versetto di apertura dell’inno rigvedico in questione: un mio conoscente mi ha mostrato le traduzioni fatte da Ralph Griffith (in inglese) e da Alexandre Langlois (in francese); entrambi traducono in tutt’altro modo, ovvero (riporto la traduzione cumulativa offertami):

O Brahmaṇaspati, rendi glorioso colui che spreme il Soma, similmente a Kakṣīvān nato dalla stirpe degli Auśija.

Mi chiedo pertanto quale sia la resa più corretta: la sua o quella dei due sanscritisti ottocenteschi.

Ringrazio anticipatamente e saluto.

[Francesco B.]


Risposta: Pio Filippani-Ronconi, famigerato rampollo della deprecabile “aristocrazia nera”, fu un uomo di immensa erudizione, ma le sue traduzioni non di rado sono altrettanto ambigue quanto la sua persona. Il volume che raccoglie le maggiori Upaniṣad, da lui curato, è tuttora (che io sappia) il più ragguardevole tra le edizioni esistenti in Italia e, tuttavia, presenta alcuni rilevanti difetti, a partire per l’appunto dalla traduzione depistante (ancorché involontaria, presumo) di alcuni vocaboli di primaria importanza ai fini della effettiva comprensione dei testi, oltre alla totale incapacità di riprodurre sia pur in minima parte l’afflato poetico-rivelatorio invariabilmente presente nei testi originali, per non parlare poi dell’assenza dei testi originali stessi a fronte (in devanāgarī o traslitterati). La citazione da Lei riportata, nella maggior parte delle edizioni originali esistenti corrisponde alla strofe 22. Mentre il passaggio riguardante il dio in questione, al quale io faccio riferimento, è quello che riporto qui:

एष उ एव बृहस्पतिर्वाग् वै बृहती तस्या एष पतिस्तस्मादु बृहस्पतिः॥ २० ॥

एष उ एव ब्रह्मणस्पतिर्वाग् वै ब्रह्म तस्या एष पतिस्तस्मादु ब्रह्मणस्पतिः॥ २१ ॥

Per scrupolo, offro pure la traslitterazione in caratteri romani:

eṣa u eva bṛhaspatirvāg vai bṛhatī tasyā eṣa patistasmādu bṛhaspatiḥ ॥ 20 ॥

eṣa u eva brahmaṇaspatirvāg vai brahma tasyā eṣa patistasmādu brahmaṇaspatiḥ ॥ 21 ॥

La traduzione che personalmente riesco a rendere (in endecasillabi, come mio costume) è la seguente:

Egli è Bṛhaspati – or, la parola

essendo bṛhatī, da ciò deriva

ch’egli è il signore del soffio vitale:

per questo viene chiamato Bṛhaspati. [20].

Egli è Brahmaṇaspati – il verbo

è brahman ed egli ne è il signore:

per ciò viene chiamato Brahmaṇaspati. [21].

Il termine bṛhatī, che ho preferito riportare in originale, anche per meglio rendere il collegamento con il nome del dio Bṛhaspati [bṛhatī + pati (‘signore’); analogamente, ho lasciato il più noto termine brahman per evidenziare il collegamento con Brahmaṇaspati: brahman + pati], ha diversi significati: oltre a ‘parola’ (come lo stesso brahman nel vedico originario), significa al contempo ‘serbatoio’ (nella fattispecie, rappresenta il contenitore cosmico dell’energia vitale – ovvero, per fare ricorso a una espressione poetica maggiormente in accordo con la sensibilità dei bardi vedici e upanishadici, è quello che potremmo chiamare “l’oceano del prāṇa”).

Ancor più intrigante trovo il riferimento alla prima strofe dell’inno rigvedico da Lei riportato. Sì, so bene che non soltanto i due celebri orientalisti citati, ma la maggior parte dei traduttori europei tratta kakṣīvantaṁ alla stregua di un nome di persona e auśijaḥ come un patronimico. Sennonché, non è presente alcun comparativo nella strofe originale: in vedico, generalmente, si utilizza iva per dire “come”; oppure, ricorre di frequente anche evameva, “al pari di”, “similmente a”; o altro ancora. Qui non esiste ombra di tutto ciò; non a caso, per correttezza, Langlois nella propria traduzione in francese lascia chiaramente intendere che quel “come” è frutto di una interpolazione, indicandolo come una sua aggiunta deliberata. Sono invece propenso, senza la minima esitazione, a ritenere che i testi dei poeti rigvedici non necessitino affatto di essere sottoposti a simili forzature grammaticali per essere tradotti in modo comprensibile; pertanto, sulla scorta del suggerimento che Sri Aurobindo offre in casi analoghi, sono propenso a considerare kakṣīvanta come una parola composta, formata da kakṣva + van: “possessore del segreto” (segreto da intendere qui, ovviamente, nel senso dei misteri iniziatici ben noti nell’antichità, in varie latitudini geografiche). Inoltre, come mi pare di avere più volte segnalato nelle note apposte alla traduzione, gli stessi nomi di persona dei veggenti vedici (e del loro clan di appartenenza), erano con ogni probabilità intesi a simboleggiare determinati stati di coscienza o attitudini psicologiche ben precise. Il clan degli Auśija, per tornare a questo specifico passo, denota una stirpe di poeti-veggenti particolarmente volti ad aspirare verso il principio illuminativo della coscienza (uśiij, infatti, significa “radiosità”, “fuoco”), mentre altri vati sono maggiormente inclini al principio della forza o della gioia dell’essere.

In definitiva, mi permetto di aggiungere che le traduzioni del Ṛgveda fatte dagli orientalisti europei otto-novecenteschi, per quanto lodevoli nell’intento, ormai sono da considerarsi obsolete (out of date, per dirla in inglese): hanno mostrato tutta la loro inadeguatezza. Mentre non è affatto lodevole notare come le università europee utilizzino ancora tali traduzioni in modo esclusivo e si mostrino del tutto impermeabili a trasposizioni più scrupolose e precise che oltrepassino i confini dell’interpretazione ritualista-naturalistica entro la quale costoro si sono barricati. In questa sede preferisco soprassedere su tali bieche motivazioni ostative, ritenendo di averle già affrontate a sufficienza in altri approfondimenti (se la memoria non mi fa difetto, alcuni sono presenti in articoli di approfondimento pubblicati sul sito de La Calama editrice - per agevolarla le lascio il link alla pagina che li contiene tutti: https://www.lacalama.it/rgveda-detail#Links).

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5. [Ṛgveda, I.CLXXIX; pagg. 362-363]

Domanda: Trovo impareggiabile l’inno 179… Vorrei quindi ricevere lumi sul verso (che ricorre in due diverse strofe) pronunciato dalla consorte di Agastya: “Eppure i Tori han raggiunto le Vacche”. Si tratta (forse) dell’unico tassello che mi manca per la comprensione totale dell’inno. Grazie!

[Paolo F.]


Risposta: Nel vedico originale, il sintagma di riferimento vibra magnificamente: na patnīrvṛṣaṇo jagamyuḥ. I Tori (vṛṣabha) e le Vacche (le loro femmine, patnī) rappresentano le energie maschili e femminili dell’Essere-Potenza. Il Toro, nel Ṛgveda, rappresenta il Puruṣa (nṛ), mentre le Vacche sono le potenze (gñā) della gnosi sopramentale che riversa la luce della conoscenza nel mondo del divenire. Quando “i Tori raggiungono le Vacche”, significa che gli enti individuati hanno ritrovato la loro identità con lo Spirito divino (puruṣottama) da cui è scaturita la Soprannatura (paraprakṛti). Ecco: spero di avere apportato la giusta chiarezza e di non avere complicato ulteriormente le cose! In estrema sostanza, Lopāmudrā lamenta il fatto che, nonostante la piena consapevolezza raggiunta dall’individuo (nella fattispecie, da parte sua e del suo sposo Agastya) dell’Assoluto Supremo e dell’intrinseca sua divina Forza dinamica, il corpo fisico resta soggetto alla mortalità, come attestano pure i precedenti “fautori del Vero, incapaci di arrivare alla fine del Processo” (strofe 1) – trattasi del processo di trasformazione della materia in modo da renderla una forma cosciente dello Spirito immortale e, per conseguenza, al pari di questi, esente da mortalità. Ma Agastya esorta prontamente la sua eroica compagna a continuare a scavare nella roccia dell’incosciente materiale, fino a liberare “il miele-di-Soma” sepolto: ovvero, il principio in grado di rendere la materia una espressione gioiosa e piena (non più deformata, come al presente) dello Spirito divino. Anche se una simile meta dovesse restare non raggiunta (almeno per il momento), non è “mai vana la fatica che gli dèi proteggono” (strofe 3): il lavoro dei pionieri servirà per gettare le fondamenta del futuro e definitivo trionfo sulla morte. Questo il senso.

Tengo inoltre a ricordare che il termine puruṣa è presente nel Ṛgveda (p.es., in III.XXXIII.8), ma bisognerà attendere il pieno sviluppo del Sāṃkhya (e oltre ancora) per cogliere tutte le sfumature di questo importante principio.

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6. [Ṛgveda, II.XXXIV; pagg. 456-457]

Domanda: Sono un lettore entusiasta della vostra edizione del Ṛgveda e degli articoli di approfondimento, grazie ai quali ho potuto ammirare la coscienziosità letteraria che vi contraddistingue. Desidero comunque segnalare che, in merito al termine ṛtaṁ (esemplare il vostro articolo intitolato Satyam e ṛtaṁ), i traduttori inglesi, francesi e tedeschi sono sempre più propensi a tradurlo come “verità”, esattamente come fate voi, seppur con qualche eccezione in determinati contesti. Forse, poco per volta ci si sta avvicinando sempre più a riconoscere il vero significato degli inni vedici.

[Adriano M.]



Risposta: Speriamo vivamente che le nuove generazioni di traduttori rigvedici colgano il senso vero degli inni! Mi limito a precisare che talvolta anche io ho conferito al termine ṛtaṁ sfumature leggermente diverse a seconda del contesto (e delle esigenze metriche). Per limitarmi a un esempio, nella tredicesima strofe dell’inno 34 contenuto nel secondo Maṇḍala, a fronte del vedico rudrā ṛtasya sadaneṣu vāvṛdhuḥ ho tradotto “i Rudra si estendono nelle Regioni fulgide”, lasciando sottintendere che le “Regioni fulgide” sono per l’appunto le dimore di verità, essendo lo splendore illuminativo uno dei principali simboli rigvedici del Sole-di-Verità.

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7. [Ṛgveda, II.XLI; pagg. 470-471]

Domanda: Qualche anno fa, in India ho acquistato il libro From Veda to Kalki di Tommaso Iorco, che trovo magnifico e che sto rileggendo e studiando meticolosamente (tornata in Italia, ho scoperto che esisteva una precedente versione in italiano che, presumo, è l’originale; ma questo è un dettaglio ininfluente). Vi scrivo perché a pagina 22 del testo inglese suddetto si afferma che il termine tamil ammā (che chiunque sia stato nel Tamil Nadu ha sentito parecchie volte) è rintracciabile nel vedico, nella forma amba. Mi sono da poco procurata il volumone del Ṛgveda tradotto da Iorco, e mi piacerebbe sapere se questo termine si trova in qualche inno. Se possibile, vorrei inoltre ringraziare l’autore del saggio (e traduttore), nei cui confronti sento un grande debito di riconoscenza: potete fare voi da tramite?

[Anna T.]


Risposta: Grazie per le parole cordiali… Abbiamo entrambi un debito di riconoscenza nei confronti di Mère e Sri Aurobindo: infatti, se il saggio Dai Veda a Kalki e la traduzione degli inni rigvedici hanno una qualche valore, lo si deve primariamente a Loro (e lo dico senza falsa umiltà: senza di Loro non mi sarebbe stato minimamente possibile realizzare né il saggio né la traduzione). Ma vengo al dunque: certamente il termine amba compare nel Ṛgveda, almeno una mezza dozzina di volte. In II.XLI.16 è la dea Sarasvatī che viene appellata in tal modo… Riporto la traduzione dell’intera strofe (seguita da traslitterazione, ove si può notare che il termine ricorre due volte, nel primo e nel secondo emistichio, da me evidenziate in grassetto – ripetizione che nella traduzione si è preferito evitare, per ovvi motivi):

Madre Magna, migliore fra le dee,

Sarasvatī, seppur noi siamo indegni,

la tua sublime eccellenza riservaci. (16)

ambitame nadītame devitame sarasvati |

apraśastāiva smasi praśastamamba naskṛdhi ॥ 16 ॥

In Ṛgveda, I.XXIII.16, le Acque divine (Apas) vengono evocate con l’epiteto ambayoḥ (“materne”); vi sono poi almeno altri due inni nel decimo Maṇḍala in cui l’aggettivo amba ricorre: X.LXXXVI.7; X.XCVII.2 (śatam va amba dhāmāni).

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8. [Ṛgveda, V.XXXIV; pagg. 788-789]

Domanda: Non capisco il seguente passo, contenuto nel quinto Ciclo, inno 34:

Egli, per elevarsi, non necessita

dei cinque i dieci Dasyu; né si allea

con chi non offre Soma, pur se prospero:

la sua tremenda collera lo abbatte

e uccide; all’aspirante invece dona

un ricco spazio di Vacche-di-Luce.

Che cosa si intende esattamente con “dei cinque i dieci Dasyu”?

[Davide L.]


Risposta: Si tratta di un refuso e me ne scuso. In realtà, il secondo verso avrebbe dovuto essere “dei cinque o i dieci Dasyu; né si allea”. Ringrazio della segnalazione e provvedo affinché la prossima ristampa riporti il verso correttamente, che trascrivo qui sotto per intero –

Egli, per elevarsi, non necessita

dei cinque o i dieci Dasyu; né si allea

con chi non offre Soma, pur se prospero:

la sua tremenda collera lo abbatte

e uccide; all’aspirante invece dona

un ricco spazio di Vacche-di-Luce. (5)

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9. [Ṛgveda, V.LX; pagg. 800-801]

Domanda: Al fondo della pagina 800, si segnala (in una piccola nota) che alcuni studiosi hanno desunto la data di una eclisse solare, la quale sarebbe accorsa il 26 luglio 3.928 a.C. – il che proverebbe che il Ṛgveda è molto più antico di quanto viene generalmente riconosciuto. L’inno coinvolto in questi calcoli matematici e astronomici è il quarantesimo del quinto libro. Sai dirmi qualcosa di più in merito? Ringrazio anticipatamente e cordialmente saluto.

[Gianni V.]


Risposta: Non essendo né un matematico né un astronomo, ho preferito lasciare al lettore la libertà di effettuare gli eventuali approfondimenti e di valutare l’attendibilità di una simile ipotesi. L’unica cosa che io posso affermare è che quanti sono giunti a calcolare e a stabilire l’eclisse solare in questione, lo hanno fatto sulla base di una traduzione plausibile dell’inno (strofe 6-9), che riporto qui in traslitterazione.

yattvā sūrya svarbhānustamasāvidhyadāsuraḥ |

akṣetravidyathā mughdho bhuvanānyadīdhayuḥ || 5 ||

svarbhānoradha yadindra māyā avo divo vartamānā avāhan |

ghūḷhaṃ sūryaṃ tamasāpavratena turīyeṇa brahmaṇāvindadatriḥ || 6 ||

mā māmimaṃ tava santamatra irasyā drughdho bhiyasā ni ghārīt |

tvam mitro asi satyarādhāstau mehāvataṃ varuṇaśca rājā || 7 ||

ghrāvṇo brahmā yuyujānaḥ saparyan kīriṇā devānnamasopaśikṣan |

atriḥ sūryasya divi cakṣurādhātsvarbhānorapa māyā aghukṣat || 8 ||

ya vai sūryaṃ svarbhānustamasāvidhyadāsuraḥ |

atrayastamanvavindannahyanye aśaknuvan || 9 ||

Come dicevo, personalmente non possiedo le competenze astronomiche per poter affermare o negare quanto sostenuto da taluni studiosi; ho provato a leggere i documenti attestanti tali ricerche, ma francamente non ho capito quasi nulla, tra descrizioni di modifiche (riscontrate durante le eclissi) dell’acqua dell’oceano, raggi gamma, mutazioni nella ionosfera, frequenza dell’elettrone, eccetera: da tutto ciò, parrebbe che l’eclissi ne risulti descritta nel dettaglio, accorsa nella latitudine nord 28-32, longitudine est 68-74 del meridiano di Greenwich. Mi limito pertanto a fare qualche breve osservazione di merito. Partendo dal fatto che, come in ogni opera genuina di poesia mistica (o anche solo metaforica), nel Ṛgveda il polisemantismo permette di esprimere molteplici livelli sovrapposti di significato. Se analizziamo il nome di persona dell’asura coinvolto nel suddetto inno, Svarbhānu, scopriamo che si tratta di parola composta, la quale si può tradurre con “illuminato dal sole”; quindi, può essere inteso come un epiteto della Luna, che brilla di luce riflessa – e che, interponendosi fra il sole e la terra, come sappiamo causa l’eclisse. In questo modo, gli studiosi hanno interpretato vari nomi presenti nelle strofe citate. Nella mia traduzione non ho neppure voluto (e non solo per motivi di spazio) aggiungere che i calcoli scientifici nel determinare l’antichissima eclisse furono influenzati anche dal secondo emistichio di una strofe (la quarta) dell’inno 138 contenuto nel decimo Maṇḍala.

māseva sūryo vasu puryamā dade grnānah satrūmraśrnādvirukmatā || 4 ||

Come pure da un’altra strofe: la seconda dell’inno 28 del quarto Maṇḍala.

tvā yujā ni kidatsūryasyondrascakram sahasā sahya indro |

adhi ṣnunā bṛhatā vartamānam maho druho apa viśvāyu dhāyi || 2 ||

So bene di non essere stato di alcun aiuto effettivo in questa mia non-risposta, ma non possiedo le competenze per pronunciarmi in merito. Chiedo venia!

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10. [Ṛgveda, VI.XLVIII; pagg. 992-993]

Domanda: Posso chiedere il significato di una parola? Mi permetto di citare la traduzione di un passo dell’inno 48 (libro sesto):

Il Kākambīra non sia sradicato;

distruggi gli Efferati che vorrebbero

stringere al collo l’Uccello solare.


Cosa significa Kākambīra? Che cosa rappresenta?

Grazie…

[Marianna D.]


Risposta: Questo termine, a quanto ne so, compare solo nel Ṛgveda (in aggiunta, come hapax!); non mi risulta essere mai stato ripreso nella letteratura sanscrita successiva. Pertanto, è particolarmente difficile determinare di cosa si tratti. A ogni modo, la traduzione letterale è: “che ospita il corvo”, kāka. E dato che ci si augura non venga sradicato (udvṛho), si suppone trattarsi di un albero (scelto dai corvi per costruire i loro nidi). Come sempre nel Ṛgveda, tutto ciò dovrebbe facilmente veicolare un valore simbolico, visto peraltro che si chiede al dio Agni (nella forma di Vanaspati, “signore delle selve”, le quali sono a loro volta simbolo di crescite gradevoli della sostanza dell’essere) di distruggere gli “efferati” (maśa, i “rabbiosi”, i “ronzanti”: trattasi di forze ostili particolarmente importune), ma preferisco non avventurarmi troppo in congetture e lascio ciascuno alle proprie deduzioni.

*

11. [Ṛgveda, VI.LIX; pagg. 1014-1015]

Domanda: Desidero ringraziare il traduttore per l’immenso lavoro svolto. Negli anni, i miei tentativi di leggere il Ṛgveda (in varie traduzioni, in francese, in inglese, in tedesco) mi hanno sempre lasciato insoddisfatto, anche perché le incongruenze erano tali da farmi dubitare della fedeltà della traduzione, pur quando rechi la firma di orientalisti rinomati. Quando infine sono entrato in contatto con la traduzione di Iorco, ho finalmente respirato un’aria congeniale, per così dire: tutto appare coerente, oltre che vivo. Certo, i passaggi maggiormente esoterici non si prestano facilmente a essere compresi appieno, ma vengono resi con un linguaggio sempre chiaro e vibrante, oserei dire illuminante. Ed è proprio su uno di questi passaggi che vorrei ricevere lumi: in VI.59.6, si legge che “colei che non ha piedi” (la dea Iḷā, suggerisce lo stesso Iorco) “la lingua fa vibrare al punto da mostrare trenta piedi”. In che modo lo si deve intendere?

[Ettore B.]


Risposta: Grazie davvero per i complimenti, sempre graditi. Iḷā rappresenta la facoltà della rivelazione. I “piedi” (pāda), nella metrica vedica (come pure nelle successive letterature sanscrita, greca e latina, tutte quantitative) costituiscono le misure del verso poetico. “Colei che non ha piedi” (presiedendo la più alta facoltà poetica, è al di sopra di qualsivoglia forma di espressione linguistica) “fa vibrare la lingua” (ovvero, dona la favella poetica al vate) “al punto da mostrare trenta piedi” (qui, il numero trenta è evidentemente simbolico, come quando le divinità vengono rappresentate, nell’iconografia indiana, con 4, 6 o 10 braccia). In buona sostanza, la dea della rivelazione presta la propria voce al poeta-veggente, il quale in tal modo riceve ed esprime (mediante tutti i piedi metrici di cui l’umano linguaggio è capace) il flusso variegato del verbo-di-verità. La parola pāda presenta poi altre implicazioni ancora, ma lascio volentieri al lettore il gusto della scoperta. Ho più volte sottolineato l’importanza, nel Ṛgveda (come nella poesia tutta, in ogni umana lingua), dell’effetto cumulativo offerto dal polisemantismo lessicale.

*

12. [Ṛgveda, VII.XVIII; pagg. 1084-1085]

Domanda: A pag. 1086 della traduzione da voi pubblicata, in riferimento al diciottesimo inno del settimo libro, si precisa che la cosiddetta “battaglia dei dieci re” (tanto dibattuta dagli indologi), non avrebbe un fondamento storico, in quanto l’inno sarebbe unicamente da intendersi in senso esoterico. Mi piacerebbe ricevere qualche delucidazione, che la lunghezza dell’inno in questione non ha permesso in quella sede. Inoltre, gradirei qualche riflessione più generale in merito alla società vedica in relazione alle guerre: la si può considerare una società sostanzialmente pacifica?

[Anna M.]



Risposta: Lei dice bene quando scrive che la dāśarājña yuddha (“battaglia dei dieci re”, दाशराज्ञ युद्ध) è “tanto dibattuta dagli indologi” e, aggiungo io, solo da questi, i quali sono gli unici ad averla “dibattuta” e certamente non gli uomini dell’età vedica! Facezie a parte, tale presunta battaglia è citata pure nei seguenti inni, anch’essi contenuti nel VII Maṇḍala: inno XXXIII (strofe 3 e 5) e inno LXXXIII (strofe 6-8). Che non si tratti del resoconto di vicende storiche ritengo appaia sufficientemente chiaro quando si esaminano attentamente e in modo comparato tutti e tre gli inni in questione, serbando la consueta cura nel non slegarli dal contesto complessivo dell’innodia. La terminologia è evidente: i dieci re in combutta contro il giusto Sudās (“colui che dona”, o “colui che adora gli dèi in modo appropriato”), sono poteri dell’oscurità; uno di essi, Turvaśa, viene definito uno yakṣa (VII.XVIII.6), ovvero un essere elementale (di natura sempre malvagia, negli inni rigvedici, mentre nella letteratura sanscrita successiva saranno, a seconda, spiriti benefici o malefici – in quest’ultimo caso, vengono ritratti come guerrieri terrificanti, tozzi e nerboruti); un altro re nemico di Sudās appare essere il suo esatto opposto, in quanto persegue una ascesi asurica, senza effettuare quel necessario dono-di-sé conducente a una completa e progressiva spoliazione dall’ego; per conseguenza, “beve l’oblazione senza Indra”, śṛtapāmanindraṁ (VII.XVIII.16) e viene abbattuto dal dio medesimo. Tornando a Turvaśa, un altro inno rigvedico (VI.27) lo cita in relazione a un’altra battaglia, in cui è a capo dei Vṛchãvan (“coloro che lacerano” o, se si preferisce, “quelli della lupa” – e sul doppio senso del termine vedico vṛka mi sono soffermato a sufficienza fin dall’introduzione dell’Opera) e risulta nuovamente perdente (strofe 6 e 7).

Quanto all’eventuale assenza di guerre in epoca vedica, pare alquanto improbabile, visto il continuo riferimento a carri bellici, armi, battaglie; così come il reiterato riferimento agli armenti riflette la vita prevalentemente pastorale dell’epoca, pure questa ulteriore analogia mi pare rispecchi circostanze esteriori. Per citare uno stralcio epistolare di Sri Aurobindo (segue la mia traduzione fra parentesi quadre): there are in the Rig Veda two or three hymns describing a great battle which the scholars declare to have been the fight of one king against ten allied kings, and besides that, the hymns are full of images of war and battle. These too have an esoteric meaning, but they indicate a state of things in which war and battle must have been frequent (da “Letters on Yoga”). [«Vi sono nel Ṛgveda due o tre inni tesi a descrivere una ingente battaglia che gli studiosi dichiarano essere stata la lotta di un re contro dieci re alleati e, inoltre, gli inni sono ricchi di immagini di guerra e battaglia. Anch’esse hanno un significato esoterico, ma indicano uno stato di cose in cui la guerra e la battaglia dovevano essere frequenti»].

*

13. [Ṛgveda, VIII.XLI; pagg. 1340-1341]

Domanda: Riflettendo sui collegamenti (e lei ne evidenzia parecchi, nei suoi magistrali commenti) tra le varie civiltà mondiali, leggendo i versi conclusivi dell’inno 41 (ottavo libro), non posso non pensare alla mitologia greca (che amo particolarmente) e alle colonne sostenute dal titano Atlante. Peraltro, sono a conoscenza dell’interessantissimo studio (in inglese) da lei condotto con rigore scientifico, nella Atlas Trilogy. Le sarei grato se potesse scrivermi qualcosa in più in merito a tali colonne rigvediche. Grazie molte.

[Gisella P.]


Risposta: Grazie a lei. Tengo anzitutto a precisare che la trilogia su Atlante, di cui lei cita il primo volume, è una elaborazione realizzata in collaborazione con esimi studiosi di varie parti del mondo, coordinati dal finlandese Pasi Malmi: è a quest’ultimo che si devono i maggiori meriti – a me è stato riservato il compito di approfondire alcuni aspetti legati primariamente alla letteratura dell’India e a supervisionare l’insieme dell’opera, in modo da segnalare eventuali falle o imprecisioni e offrire consigli (a partire dalla scelta stessa del titolo). Fatta questa precisazione (per me doverosa), provo a rispondere alla sua richiesta, sperando di risultarle sufficientemente esaustivo. Skambha (“sostegno”, “supporto”), la mitica Colonna rigvedica che sostiene Cielo e Terra (sovente, nel sanscrito post-vedico, diventerà Stambha), compare anche, con altro nome, in Ṛgveda IV.V.1: qui, è Sthūna (“pilastro”), ma il concetto è identico. Nello Atharvaveda (X.7-8) i bastoncini preposti all’accensione del fuoco sono detti appartenere a Skambha (come se si trattasse di un loro derivato, fosse pur solo simbolico; peraltro, il bastoncino da fuoco “maschio” è chiamato pra-mantha, termine che, a partire dalla radice math, manth, “trapanare”, frullare”, presenta interessanti derivazioni interculturali, dal latino mentula al greco dorico promatheus, da cui deriva il nome di persona Prometeo, peraltro riconosciuto dai grecisti come nome sicuramente non greco, il quale ruba il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini; non vorrei divagare, ma per gli Atzechi e i Tasmaniani, i responsabili dei primi bastoncini per accendere il fuoco furono i mitici Gemelli, - gli Aśvin rigvedici, Castore e Polluce dei Greci e dei Romani). Come lei fa giustamente notare, il celebre Axis Mundi lo si ritrova in molte culture antiche, fino ad arrivare al totem degli amerindi e all’albero della cuccagna delle tradizioni popolari europee. Uno dei nomi sanscriti per designare tale Colonna, ovvero Yūpa, potrebbe trovare una qualche rispondenza nel magico strumento finnico detto Sampo, descritto nel Kalevala e altrove. Inoltre, per gli antichi popoli norreni, Mundilflöri (mundil, “ruotare”) rappresenta la Potenza reggitrice (lett. “colei che fa ruotare il manico”, in riferimento al moto rotatorio e alla rivoluzione dei cieli). Ma, come già notava nel VI secolo Gregorio di Tours, «la lama della mente ha perso il suo filo: a stento comprendiamo gli Antichi»!

Visto il suo amore nei confronti dell’antica Grecia, esiste un breve stralcio epistolare di Sri Aurobindo che riporto qui in conclusione (segue mia traduzione in italiano).

As to the Eleusinian mysteries, […] they were connected with the same mystic knowledge as was held in India by the Vedic Rishis. Demeter and Persephone were goddesses worshipped by the Greeks; Demeter is the Earth-Mother and Persephone was the goddess of the Harvest, but in the mystic symbols Persephone represented the earth consciousness buried in the Ignorance and emerging into the Divine Light. The Eleusinian mysteries were instituted as an outward symbol of this secret knowledge. (da “Letters on Yoga”).

[«Per quanto riguarda i Misteri eleusini, […] essi erano collegati alla medesima conoscenza mistica detenuta in India dai ṛṣi vedici. Demetra e Persefone erano dee venerate dai Greci; Demetra è la Madre Terra, mentre Persefone è la dea del raccolto, ma nei simboli mistici Persefone rappresentava la coscienza terrestre sepolta nell’ignoranza ed emergente nella Luce divina. I Misteri eleusini furono istituiti come simbolo esteriore di tale conoscenza segreta.»].

*

14. [Ṛgveda, X.CXLIX; pagg. 1994-1995]

Domanda: Pur non essendo una studiosa professionista, da parecchi anni cerco di approfondire il Ṛgveda e, finalmente, grazie alla sua opera di traduzione e commento, ho potuto trovare quanto soddisfa le mie esigenze. Le sono sinceramente grata. Le scrivo in merito a un piccolo dettaglio, forse ininfluente, ma che personalmente mi piacerebbe comprendere. Verso la fine del testo, la prima stanza dell’inno 149 (decimo Maṇḍala) viene chiaramente spiegata nel suo senso astronomico (l’eliocentrismo), anche grazie alla nota a fronte da lei apposta; come suo costume, lei precisa che tale significato, pur essendo più che plausibile, costituisce esclusivamente il senso essoterico, per l’appunto. Potrebbe chiarirmi il senso più vero, l’esoterico?

[Bruna C.]


Risposta: Grazie: sono lieto che abbia potuto trovare quanto cercava; non per falsa umiltà, ma in piena consapevolezza posso assicurarle che non avrei mai potuto portare a termine un simile lavoro (e, per la verità, neppure incominciarlo!) senza la chiave di lettura offerta da Sri Aurobindo per permetterci di accedere alla reale portata dell’innodia rigvedica. Venendo alla questione da lei posta, riporto anzitutto l’intera strofe:

Il Sole aggioga la Terra e altri corpi
celesti, come destrieri selvaggi
da un domatore trattenuti, in modo
che essi ruotino intorno a se stesso. (1)

Come lei ha abbondantemente appreso e come risulta evidente a una lettura attenta dell’intero corpus rigvedico, il dio Sole (Sūrya Savitar) nel simbolismo rigvedico rappresenta la Luce-di-Verità, la coscienza-forza sopramentale; mentre la Terra è il principio materiale che, nella fattispecie, insieme agli “altri corpi celesti”, rappresenta l’universo fisico. La Materia deve essere “aggiogata” al potere sopramentale dello Spirito, affinché l’intero cosmo possa ruotare intorno al supremo Principio che lo ha reso manifesto, mediante estrinsecazione di Sé. Le strofe successive dell’inno avvalorano e confermano tale senso, abbandonando senza alcun riguardo la nozione eliocentrica chiaramente contenuta nella strofe di apertura.

*

15. [Ṛgveda, X.XIV; pagg. 1724-1725]

Domanda: Yama, come lei illustra fin da pag. 78, nel Ṛgveda non rappresenta il dio della morte, bensì (per citarla) «ricopre la funzione ben più vasta di regolatore dei processi cosmici, da cui il suo nome; mentre il suo più usuale epiteto è Dharmarāja, “re del dharma”». Sri Aurobindo, dal canto suo, precisa (traggo la citazione da pag. 1716): «Perfino nella Īśa Upaniṣad il nome Yama è usato come appellativo del Sole. È il custode del dharma, la legge della Verità, satyadharma, che è una condizione dell’immortalità e di conseguenza è il custode dell’immortalità; il suo mondo è Svar» (Sri Aurobindo, da “Il segreto dei Veda”). Infine, nello stesso Rgveda leggiamo (pag. 1723) «Yama preservi i nostri cari Corpi». La reale funzione di Yama mi sembra chiara nel quattordicesimo inno contenuto nell’ultimo ciclo. Ho letto da qualche parte (non ricordo dove, purtroppo) che potrebbe esserci una qualche relazione fra il dio rigvedico Yama e il dio greco Crono. Le risulta?

[Caterina S.]


Risposta: In qualche modo, sì. Il vedico Yama lo si ritrova nello Zend-Avesta con il nome di Yima Xšaēta. E proprio dal persiano Xšaēta (“radioso”, “splendente”) potrebbero essere derivati il greco Chronos e, in modo ancor più evidente, il latino Saeturnus (successivamente, Saturnus). Fin dalla prima epoca post-vedica, ci si è spinti (purtroppo) a fondere Yama e Mṛtyu in un unico dio (anche a causa di un’errata interpretazione dell’inno X.CXXXV, a cui io ho cercato di restituire il senso originale – vedi pagg. 1966-1967), mentre nel Ṛgveda appaiono due divinità aventi caratteristiche ben distinte, seppur con alcune affinità in determinati ambiti operativi. A ogni modo, è interessante notare come la letteratura indiana successiva considererà Kāla (il dio del tempo, corrispondente quindi al Chronos-Saturnus della tradizione greco-latina) come il comandante di Mṛtyu, il signore della morte (Ṛgveda, X.XVIII).

*

16.

Domanda: Nel secondo volume dell’Agenda di Mère, Satprem chiede (in conclusione di una lunga conversazione datata 5 novembre 1961) l’eventuale differenza esistente fra il procedimento utilizzato per realizzare il sopramentale da parte dei veggenti rigvedici rispetto all’esperienza di Mère e di Sri Aurobindo. Mère accenna una risposta, poi scrive a Satprem una breve lettera (il giorno dopo, il 6) e, infine, il giorno successivo (il 7), in una lunga conversazione (la versione registrata la trovo particolarmente illuminante, nel senso che la voce di Mère fa vedere) entra più nel dettaglio, descrivendo la propria esperienza (visione del prototipo della forma sopramentale), quella di Sri Aurobindo (il tentativo di trasformare la mente per mezzo della coscienza sopramentale) e il Lavoro svolto insieme (la discesa nel vitale, poi nel fisico, quindi nel subcosciente e infine nell’incosciente). Mi chiedo pertanto se per noi esseri umani sia possibile una realizzazione “a occhi aperti” (come quella di Mère e Sri Aurobindo), oppure se è possibile solo passando attraverso una trance yogica (come, a quel che pare, accadeva ai rishi vedici).

[Renzo P.]



Risposta: Considero l’intera sua riflessione, compresa la domanda, del massimo interesse. Mi perdonerà quindi se preferisco non arrampicarmi sugli specchi nel tentativo di fornirle una risposta giocoforza congetturale. Ritengo che ciascuno debba rispondere con la propria esperienza concreta, e la mia è ancora troppo embrionale e non mi permette di avventurarmi in simili ambiti con sufficiente padronanza e in piena cognizione di causa. In post-scriptum traduco parte di un’epistola di Sri Aurobindo. Certo della sua comprensione, ringrazio e saluto cordialmente.

P.S.: I can’t say whether any of them [the Vedic Rishis] attained the supramental plane, but the ascent to it was their object. Swar is evidently the illumined regions of Mind, between the supramental and the human intelligence formed by the rays of the Sun. According to the Upanishads those who ascend into the rays of the Sun return, but those who ascend into the Sun itself do not come back. That is because the ascent to supermind was envisaged, but the descent and organisation of the supermind here (as apart from the descent of the Rays) was not. (Sri Aurobindo, da “Letters on Yoga”).

[Non posso affermare se qualcuno di loro [i ṛṣi vedici] raggiunse il piano sopramentale, ma il loro scopo era l’ascesa a esso. Svar rappresenta evidentemente le regioni illuminate della mente (fra l'intelligenza sopramentale e quella umana), formate dai raggi del Sole. Secondo le Upaniṣad coloro che ascendono ai raggi del Sole ritornano, ma coloro che ascendono al Sole stesso non ritornano. Questo perché era prevista l'ascesa alla sopramente, ma la discesa e l’organizzazione della sopramente qui (a parte la discesa dei Raggi) non lo erano.»].

*

17. Riflessioni conclusive.

Domanda: Posso permettermi di chiederle se intende pubblicare una “edizione critica” della Ṛgveda Saṃhitā contenente il significato di ciascun vocabolo, sulla stregua di quanto magistralmente fatto a pagina 201? Sarebbe estremamente interessante e istruttivo… In tal caso, potrebbe anticiparmi le seguenti quattro strofe? - I.V.3; I.LXXI.2; II.I.12; IV.I.7. Grazie!

[Sandra T.]


Risposta: L’approfondimento del testo rigvedico per me si è concluso: non ho intenzione di ritornarvi in futuro. Riterrei benvenuta la comparsa dell’edizione critica da lei auspicata da parte di un autentico linguista (possibilmente illuminato!). In via del tutto eccezionale, sperando di farle cosa gradita, soddisfo qui di seguito la sua richiesta relativamente alle quattro strofe segnalate.

1) sa ghā no yoga a bhuvatsa rāye sa puraṁdhyām | gamadvājebhirā sa naḥ || I.V.3 ||

sa egli;
ghā ornare;
no in noi;
yogal’unione mistica;
a (particella rafforzativa)
bhuvat favorevole (sottinteso: possa essere o, meglio, possa favorire);
sa egli;
rāye ricchezza;
sa egli;
puraṁdhyām nella conoscenza;
gamati possa giungere, possa condurre;
vājebhiḥ con varietà di ogni bene;
sa egli;
naḥ da noi.

2) vilu ciddṛḷhā pitaro na ukthairadriṁ rujannaṅgirasa raveṇa |
cakrurdivo brhato gātumasme ahaḥ svarvividuḥ ketumusrāḥ || I.LXXI.2 ||

viḷu fortezza
cid consapevolezza
dṛḷhā baluardi ostinati; entità accanite
pitaro padri (i mitici avi)
na nostri
ukthaiḥ mediante la parola sacra (il mantra)
adriṁ la pietra, la roccia (simbolo dell’incosciente materiale)
rujan travolgere
aṅgiraso gli Aṅgirasa (i veggenti del fuoco mistico)
raveṇa il grido (la vibrazione peculiare emessa dai ṛṣi)
cakruḥ volgere, rendere, aprire
divo il cielo splendente
brhato vasto
gātum passaggio, sentiero
asme per noi
ahaḥ il giorno (la coscienza desta alla luce eterna)
svar l’empireo (il cielo sovracosciente dell’essere)
vividuḥ trovare, scoprire
ketum la visione (i raggi dell’intuizione)
usrāḥ gli armenti radiosi (della gnosi divina)

3) tvamagne subhṛtaḥ uttamam vayastava spārhe varṇe ā samdṛśi śriyaḥ |
tvam vājaḥ prataraṇo bṛhannasi tvam rayirbahulo viśvataspṛthuḥ || II.I.12 ||

tvam te
agne o Agni
subhṛtaḥ ben mantenuto, ben condotto, ben portato
uttamam estremamente bene
vayaḥ in noi
tava nostro
spārhe desiderabile, eccellente
varṇe esteso, espanso
ā (particella rafforzativa)
samdṛśi supremo potere di visione
śriyaḥ bellezza, splendore, gloria
vājaḥ ricchezza
prataraṇaḥ accrescere
brhannasi essere vasto, vastità
tvam te
viśvataḥ in ogni dove, dappertutto
pṛthuḥ immenso, proteiforme

4) trirasya tā paramā santi satyā spārhā devasya janimānyagneḥ |
anante antaḥ parivīta āgācśuciḥ śukro aryo rorucānaḥ || IV.I.7 ||

triḥ tre
asya queste
loro
paramā supreme
santi sono
satyā vere
spārhā desiderabili, bene accette
devasya di questa divinità
janimāni nascite
agneḥ del dio Agni
anante infinito
antariti posto all’interno
parivītaḥ pervadente, dispiegato, manifesto
ā (particella rafforzativa)
agāt muoversi
śuciḥ puro
śukraḥ risplendere
aryaḥ realizzatore
rorucānaḥ irradiante, luminoso

1) sa ghā no yoga a bhuvatsa rāye sa puraṁdhyām | gamadvājebhirā sa naḥ || I.V.3 ||

sa
egli;
ghā
ornare;
no
in noi;
yoga
l’unione mistica;
a
(particella rafforzativa)
bhuvat
favorevole (sottinteso: possa essere o, meglio, possa favorire);
sa
egli;
rāye
ricchezza;
sa
egli;
puraṁdhyām
nella conoscenza;
gamati
possa giungere, possa condurre;
vājebhiḥ
con varietà di ogni bene;
sa
egli;
naḥ
da noi.

2) vilu ciddṛḷhā pitaro na ukthairadriṁ rujannaṅgirasa raveṇa |
cakrurdivo brhato gātumasme ahaḥ svarvividuḥ ketumusrāḥ || I.LXXI.2 ||

viḷu
fortezza
cid
consapevolezza
dṛḷhā
baluardi ostinati; entità accanite
pitaro
padri (i mitici avi)
na
nostri
ukthaiḥ
mediante la parola sacra (il mantra)
adriṁ
la pietra, la roccia (simbolo dell’incosciente materiale)
rujan
travolgere
aṅgiraso
gli Aṅgirasa (i veggenti del fuoco mistico)
raveṇa
il grido (la vibrazione peculiare emessa dai ṛṣi)
cakruḥ
volgere, rendere, aprire
divo
il cielo splendente
brhato
vasto
gātum
passaggio, sentiero
asme
per noi
ahaḥ
il giorno (la coscienza desta alla luce eterna)
svar
l’empireo (il cielo sovracosciente dell’essere)
vividuḥ
trovare, scoprire
ketum
la visione (i raggi dell’intuizione)
usrāḥ
gli armenti radiosi (della gnosi divina)

3) tvamagne subhṛtaḥ uttamam vayastava spārhe varṇe ā samdṛśi śriyaḥ |
tvam vājaḥ prataraṇo bṛhannasi tvam rayirbahulo viśvataspṛthuḥ || II.I.12 ||

tvam
te
agne
o Agni
subhṛtaḥ
ben mantenuto, ben condotto, ben portato
uttamam
estremamente bene
vayaḥ
in noi
tava
nostro
spārhe
desiderabile, eccellente
varṇe
esteso, espanso
ā
(particella rafforzativa)
samdṛśi
supremo potere di visione
śriyaḥ
bellezza, splendore, gloria
vājaḥ
ricchezza
prataraṇaḥ
accrescere
brhannasi
essere vasto, vastità
tvam
te
viśvataḥ
in ogni dove, dappertutto
pṛthuḥ
immenso, proteiforme

4) trirasya tā paramā santi satyā spārhā devasya janimānyagneḥ |
anante antaḥ parivīta āgācśuciḥ śukro aryo rorucānaḥ || IV.I.7 ||

triḥ
tre
asya
queste
loro
paramā
supreme
santi
sono
satyā
vere
spārhā
desiderabili, bene accette
devasya
di questa divinità
janimāni
nascite
agneḥ
del dio Agni
anante
infinito
antariti
posto all’interno
parivītaḥ
pervadente, dispiegato, manifesto
ā
(particella rafforzativa)
agāt
muoversi
śuciḥ
puro
śukraḥ
risplendere
aryaḥ
realizzatore
rorucānaḥ
irradiante, luminoso

*

In definitiva, sono molto lieto di constatare anche in queste domande quanto già ebbi modo di riscontrare in precedenti occasioni, in merito ai lettori della mia traduzione del Ṛgveda, intelligenti e sensibili, animati dal più scrupoloso spirito di indagine.

Spero di aver fornito loro risposte sufficientemente esaustive.

Grazie a tutti.

Mi piace concludere questi scambi epistolari (che, per troppi altri impegni personali, non potranno avere una continuazione) con una citazione del poeta Paul Valéry:


Toute vue des choses qui n’est pas étrange est fausse.

[«Qualunque visione delle cose che non è strana, è falsa»].



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